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Di terra e di vino

Di terra e di vino

Da Londra, dove per sbarcare il lunario lavora in una caffetteria, Tarcisio Antoni fa ritorno al suo paese natale, Turcli, per assistere al funerale dello zio Baldo, che si è tolto la vita sparandosi con la Bliz-Kerner, la pistola che si usa per abbattere i maiali. Ci torna malvolentieri, non solo con l’animo pesante per la morte dell’amato zio, ma anche perché dal piccolo paese friulano, abbarbicato tra montagne e pianura, se ne era andato come uno sputo che esce dalla bocca e uno sputo non deve mai tornare a dove era partito. Ad aspettarlo all’aeroporto di Venezia c’è suo padre Domenico, che lo accoglie con uno schiaffo e il silenzio, fino al ritorno in Friuli e alla prima sosta nella frasca del Boga, figura quasi mitologica e a cui tutti fanno riferimento quando si tratta di politica, di vino, ma anche lezioni di vita. A Turcli niente è cambiato. La chiesa con il suo prete e, a fronteggiarla, il bar Vittoria con il suo gestore che cita Shakespeare, ma soprattutto la gente, che non parla ma che sa tutto di tutti. Gente dura come la terra, fredda come l’acqua del fiume, che si scioglie solo col vino che scorre a fiumi. Il vino che slega le corde vocali ma che lega Tarcisio allo zio Baldo e al padre Domenico con un unico filo alcolico, rosso dei grappoli e del sangue versato sul pavimento. Per Tarcisio è una sofferenza quotidiana riconnettersi con i vecchi amici, entrare nell’appartamento dello zio, ripopolare la testa dei ricordi che pensava di aver cancellato e costruire, perché prima non c’era, un dialogo con il padre. La famiglia di Tarcisio è lì ad aspettarlo, attorno al tavolo della cucina, con i suoi segreti inconfessati eppure sulla bocca di tutti. Quelli della madre Dalila, della sorella Elvira e di chi ha frequentato zio Baldo prima della sua morte...

Parlare di Friuli significa parlare anche di stereotipi sui suoi abitanti poco loquaci, il loro carattere che si dice freddo e chiuso, facili bestemmiatori ma anche profondamente credenti in un Dio che sta nascosto sotto le foglie della vite, oppure si incarna nei fuochi dell’Epifania ed esce allo scoperto solo quando le lingue si sciolgono nelle villotte. A popolare e rendere vivi i silenzi dei personaggi di questo romanzo friulano è proprio il vino, generatore di parole, paio d’ali sopra cui spiccare il volo e sacro nella sua creazione, perché atto violento e potente nei confronti delle vigne, a cui viene tolto il frutto nel momento più alto del suo concepimento. “Mettevamo tutte le parole che ci saremmo voluti dire dentro al nostro vino, che ogni anno aveva un sapore diverso, ogni anno aveva una sua espressione, un suo preciso suono e una parola di conforto per quelle lacrime senza nome che Baldo piangeva in vigna.” È raccontando gli stereotipi, trasformandoli in personaggi, a cominciare dai soprannomi Toni e Meni, che gli stereotipi si abbattono. Il friulano che non piange – sono come la montagna che fa partire il terremoto senza subirlo - ma che lavora soltanto, che parla solo quando il tasso alcolico raggiunge una quota sufficiente, che amano più la terra delle persone e che, se sono donne, sono moglie tenute in cattività a fare le madri e le cuoche. Matteo Bellotto, appassionato di vino e filosofia, ci racconta una storia tutta friulana trasformando le ombre in cantine buie e i silenzi in malinconie e nostalgie da seppellire. E lo fa utilizzando le sue conoscenze e il suo amore – amare significa spesso anche veder soffrire ciò che si ama – per il vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo. Turcli è un paese immaginario, ma anche un compendio di focolari famigliari, banconi di osterie, inginocchiatoi di chiese, così come le vigne negli orti delle case sono una somma di quelle che Matteo Bellotto frequenta ogni giorno per lavoro e di cui, nell’appendice finale dedicata al significato dei nomi e al linguaggio del vino, spiega il perché in questo romanzo. “Ho sempre adorato il silenzio della vigna, il leggero brusio della cantina, avvicinare l’orecchio alle botti per sentire il crepitare della fermentazione, con quella festa di lieviti, disposti a gozzovigliare fino alla fine pur di restituirci il mosto trasformato. Io chiudevo gli occhi e sentivo orchestre, balli, grida di folle dentro quelle botti, come se stessi guardando le scene di un grande incontro tra amici che si amano e che vogliono rimanere insieme fino in fondo”.