
L’inglese negli ultimi anni si è conquistato uno spazio ingombrante all’interno del vocabolario italiano. Gli anglicismi non sono nuovi nelle pagine dei giornali o nelle riviste patinate. Nel Settecento si poteva ritrovare una “miledi” o un “milordo” nelle cronache delle feste mondane inglesi per indicare personaggi di una certa rilevanza. Gli anglicismi erano adattati, non esisteva il pudding ma il puddingo, George Washington diventava un più nostrano Giorgio Washington, con pronuncia poco anglosassone. Ma pian piano con i mezzi di comunicazione globalizzati, l’inglese viene preso ad esempio e si preferisce “Management” a “Gestione” o “Leggings” a “Pantacalze”. L’inglese, per pigrizia e velocità, viene utilizzato per concetti difficili da spiegare in italiano e non si prova neanche a tradurli, come il “whistleblowing” di recente interesse politico o, sempre nell’ambito istituzionale, il Job’s act. Parlare una lingua straniera, anche senza alcun tipo di conoscenza, piace al provinciale italiano, che trasforma per darsi un tono, crea. E nascono “sharare”, “affordabilità”, “bullismo” e altri mostri linguistici che, specialmente a coloro che quella lingua la conoscono bene, fa accapponare la pelle. L’atteggiamento italiano è molto diverso da quello spagnolo, ad esempio, in cui il mouse è “raton” e il computer “ordinador”. L’inglese si insinua nelle conversazioni di tutti i giorni e lascia il segno anche nella penisola iberica, ma con minori danni. In Italia forse la creatività (o l’assoluta mancanza di pudore) si è persino arrivati ad inventare parole inglesi o dare un significato diverso a quelle esistenti. Pensiamo a footing, a pile (per indicare il morbido tessuto invernale), baby killer o autogrill, che ogni inglese trova misteriose e alquanto esilaranti. Vocaboli da usare all’estero per suscitare l’ilarità generale (non tanto quanto la “cyclette” francese)…
La relazione della lingua italiana con gli anglicismi è tortuosa e in passato ha avuto conseguenze nefaste, basti pensare alla decisione opinabile durante il Ventennio fascista di non utilizzare termini non italioti per dare vita ad una vera “bonifica linguistica”. Nel 1941 gli aerei erano parcheggiati in un’aviorimessa, i pullman erano sostituiti dai torpedoni e i gangster erano malfattori, semplicemente. Nello sport andava anche peggio, chi dribblava, faceva uno scavalco, gli appassionati di bob seguivano le guidoslitte scendere dalle montagne e i più esterofili si interessavano al dischetto sul ghiaccio. Poi c’erano le ballerie dove i giovani in maglioni di casimiro discretamente fiorellavano (e non flirtavano) dopo una partita di giuoco della racchetta. Questo interessante saggio di Antonio Zoppetti è un resoconto esaustivo del percorso in picchiata verso l’imbarbarimento totale che ha fatto la lingua dello Stivale. Le riunioni di molte grandi aziende (soprattutto, quelle che operano nell’ambito della consulenza o della pubblicità) sono ormai ritrovi di amanti del finto inglese, spesso pronunciato male, che potrebbero essere usciti dalla mente sardonica di Monicelli. I vari grafici raccontano bene l’andamento degli anglicismi nel corso degli anni e sono un ottimo modo per consolidare nella memoria ciò che è stato precedentemente specificato. Come viene ben spiegato nel sesto capitolo, forse qualcosa si può fare per migliorare questa situazione: fare un passo indietro verso il ripristino della lingua italiana in territori finora relegati (per alcuni) all’English; basti prendere a riferimento la scelta della RAI di ribattezzare il proprio canale da Rai Educational a Rai Cultura. Un modo intelligente per ricordarsi chi siamo.