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Discreto e continuo

Discreto e continuo

Il continuo, di solito, è rappresentato come un insieme ideale, completo, connesso, formato da cose che compongono un’unità. Senza interruzioni e senza vuoti, appunto. Proprio così si ordinava il cosmo, così sono nati la geometria e gli studi sulla materia e così Aristotele guardava alla realtà. In quel modo del pensiero, però, si nascondono anche i diavoli. I demoni, infatti, sono i migliori sfruttatori dei collegamenti fra corpo e spirito e, viceversa, temono l’horror vacui e gli effetti delle armi da taglio, come i colpi di spada. Sulla ostica definizione di continuo si sono cimentati in migliori geni della storia, da Aristotele in poi: in ordine sparso, Giordano Bruno, i mistici vedici, Euclide, Platone, Newton. E Georg Cantor che aveva messo a punto, alla fine del XIX secolo, la matematica del continuo. Insomma, “un agglomerato di oggetti - numeri, punti, istanti temporali - caratterizzato da un’assenza di lacune e salti”: potrebbe essere la definizione di continuità. Ma è solo una delle tante. In generale, il continuo è associato a una descrizione più precisa e dettagliata di grandezze fisiche. E il discreto? Senza scomodare i filosofi dell’antichità e i geni dei numeri, è possibile ricorrere alla cifra dei nostri tempi: il digitale. In quest’ottica, la distinzione fra continuo e discreto si può sintetizzare in quella fra analogico e digitale. Un orologio che va avanti con le lancette, le molle e ingranaggi veri funziona quando il suo movimento è privo di interruzioni, continuo. Nella versione digitale, le ore sono segnate dai led e dalla loro accensione o spegnimento a scatti, con un movimento, dunque, discreto. Ciò vale per ogni aggeggio tecnologico o applicazione informatica. Qual è lo strumento è più reale? Lo sono entrambi, ma la nostra storia e la storia del pensiero hanno dimostrato che siamo portati a considerare reale solo il discreto e che solo tramite il discreto siamo in grado di conoscere il continuo...

C’è, ma non si nota. Il dialogo fra il continuo e il discreto è, secondo l’autore di questo saggio, “inevitabile” e onnipresente, dalla filosofia alla scienza. Approfondirlo oggi è solo uno degli aspetti più sublimi, più curiosi - sebbene complicati - quando ci si interroga sulla società contemporanea, sull’influenza del digitale, persino sui big data e sul rapporto uomo-macchina. L’opera di Paolo Zellini, matematico triestino e professore ordinario di Analisi Numerica all’università romana di Tor Vergata, ha consegnato al suo editore, Adelphi, un’opera che potrebbe spiazzare anche i suoi lettori più fedeli, abituati a temi audaci ma dall’approccio accessibile. La scrittura è sofisticata, il pensiero non segue un percorso cronologico o una linea che dal trattato storico-filosofico porta alle pagine di equazioni e formule. Eppure, come in un’ostinata ma affascinante avventura, ci si può orientare, procedendo per cerchi concentrici che abbracciano più discipline impegnate nel districare la dicotomia più antica e più contemporanea che c’è. Sì, valeva la pena osare l’impresa, per l’autore, e accettare la sfida, per i lettori. Per ritrovarsi, da lettori appunto, di fronte alla costruzione della realtà, alla minaccia dell’illusione, al non sapere scegliere fra totalità e frammenti, a impegnarsi nella decodifica del mondo che viviamo. Non è una lettura che lascia indenni. Si tratta del racconto di un errore - come specifica il sottotitolo - di una domanda che, da sempre, genera risposte naturalmente erronee, è l’enigma infinito. Sarà divertente provare a scioglierlo, sotto la guida di Zellini, seguendo la penna geniale di Musil. O quella di Proust che nella Recherche raccorda presente e passato in una giostra di significati e interpretazioni difficile a dirsi ma chiarissima per il lettore che (si) legge.