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Don Milani - Parole per timidi e disobbedienti

Don Milani - Parole per timidi e disobbedienti

Una lettera recapitata nelle scuole italiane, oggi. Una lettera scritta cinquant'anni fa da un maestro e i suoi studenti, indirizzata a una professoressa. Era il 1967 e a Libreria Editrice Fiorentina pubblicava Lettera a una professoressa. Copertina semplice, titolo su sfondo bianco e testo composto da parole a lungo riflettute, chiare, lucide, dirette. Al liceo Duca d'Aosta di Padova come a Torre del Greco, fino ad Avellino, studenti e studentesse riprendono in mano la Lettera per recuperare il tempo tramite le parole, per tirare fuori le parole che vogliono indirizzare alla loro professoressa, alla loro idea di scuola. Il problema, nell'ambiente-scuola, c'è, è inevitabile: professori stanchi e demotivati, genitori stressati e alunni che non sanno perché vanno a scuola, o non se lo chiedono nemmeno, subendo il quotidiano immagazzinamento di nozioni; la statica divisione – e incomunicabilità – tra le discipline; l'avvilente separazione tra sport e libri per la quale se fai l'uno puoi fare a meno dell'altro. Questi studenti, lettera alla mano, ritornano con il pensiero e l'immaginazione a un gruppo di ragazzi che negli anni '60 saliva a Barbiana, quattro case sperdute sul monte Giovi, nel Mugello, là dove era stato mandato il priore don Lorenzo Milani. Lorenzo: ragazzo di buona famiglia che vuole prima fare il pittore, poi entra in seminario. Questo “bimbo viziato” si è preso tante libertà, e adesso vuole fare silenzio intorno a sé. Cappellano a San Donato a Calenzano, forma la sua prima scuola popolare. Non tardano gli attriti con la gerarchia ecclesiastica, con la DC. Ecco Barbiana, allora; ecco le quattro case sperdute e la pergola sotto la quale fare lezione nella bella stagione. Una scuola nuova, là sui monti del Mugello, autoritaria senza voti, a tempo pieno senza bestemmiare il tempo, a esercitare lettura, pensiero, confronto e solo dopo, lucida, la scrittura.

Andrea Schiavon, giornalista sportivo, è l'insolito postino con la Lettera di Barbiana, in viaggio da Padova ad Avellino per vistare le aule, gli studenti e i professori, leggere la lettera e aspettare le riflessioni dei destinatari. Le parole non tardano a uscire fuori: sembra che proprio quel testo riesca a dare spunto, ad estrarre ciò che in nuce ribolle nel corpo dello studente. Discriminazione, stress da competizione e da agonismo; un voto a tutti i costi come se si potesse essere definiti da un numero tra lo 0 e il 10; la sfiducia, l'abbandono da parte di chi dovrebbe insegnare degli studenti che non ce la fanno, che rimangono sotto la soglia discriminante del 6, persi al successo scolastico, marginali in una scuola-ospedale “che cura i sani e respinge i malati”. Ragazzi e ragazze di fronte allo svuotamento di valore della parola-luogo scuola: dove “l'ignoranza sta”. Allora, l'attenzione e gli occhi dell'immaginazione vanno a Barbiana, al prete che insegnava con amore, a studenti che leggevano il giornale a voce alta e discutevano le notizie (non costretti, ad esempio, ad assimilare nozionistica assiro-babilonese, sorvolando su Aleppo, Iraq e l'attualità: “la scuola senza il presente è una scuola che non aiuta ad affrontare la complessità del reale”). Scrivere una lettera, prendersi il tempo di non avere un tempo che fugge per soppesare le parole; far valere le proprie ragioni anche disobbedendo; saper attendere, da parte di chi insegna, che il frutto maturi nell'alunno, che si formi un metodo – ciò che sta alla base dell'azione dell'insegnamento – sono i fulcri di una scuola diversa, laboratorio in fermento che visse la sua stagione sul finire degli anni sessanta a Barbiana, e che si propagò in giro per il mondo, a cavarsela senza comprare esperienze, esercitando più lingue per comunicare. Ecco che, per Schiavon, urge adesso togliere don Milani dal piedistallo e portare le sue lettere, i suoi scritti nelle aule, tra i banchi, farle leggere e discuterne, vedere l'effetto che fa nel confronto. Traducendo l'invito del prete di Barbiana a cercare le parole in se stessi, portandole fuori, superando la timidezza e dando senso a emozioni e pensieri che attraversano mente e cuore. “La parola”, scrive don Milani nel '56, “è la soglia tra il dentro e il fuori”.