
Maggio 1890. Jonathan Harker, impiegato alle prime armi presso un importante studio notarile londinese, viene inviato nella remota Transilvania – una delle zone più arretrate e selvagge d’Europa – per assistere un nobile del luogo, tale Conte Dracula, nell’acquisto di una villa di lusso a Londra. Un incarico difficile e anche pericoloso che il giovane deve però accettare per non pregiudicare la sua carriera e le sue speranze di matrimonio con l’adorata fidanzata Mina. Alcune affettuose missive dell’aristocratico transilvano, come briciole lasciate lungo il cammino, guidano Jonathan da Monaco a Vienna, da Budapest a Klausenburg e poi a Bistritz, fino a Passo Borgo, una sperduta località attorniata da foreste buie e montagne pericolose: è la notte di San Giorgio, quella durante la quale secondo le leggende le forze del Male raggiungono la massima potenza, e Harker si trova infreddolito e spaventato a scendere da una rassicurante diligenza – tra gli scongiuri e le preghiere degli altri viaggiatori – per attendere una carrozza inviata dal Conte a prelevarlo. Un calesse trainato da quattro cavalli neri come la notte si materializza dal buio più profondo: lo guida un laconico cocchiere dal volto celato, che invita Harker a salire. Dopo un viaggio breve ma abbastanza spaventoso tra lupi feroci e neve fitta, il giovane avvocato giunge a un grande castello diroccato, dalle cui finestre non esce “neanche un raggio di luce”. Un vetusto portone di legno e ferro si apre cigolante, e appare un vecchio pallidissimo e canuto avvolto in una veste nera, che con modi affettati lo invita a entrare: è il Conte Dracula, che si rivela da subito ospite molto premuroso, forse anche troppo. Porta lui stesso le valigie di Jonathan in camera (un nobile che si occupa dei bagagli?), non tocca cibo né bevande, sembra di fatto fare a meno della servitù malgrado viva in un castello immenso e sia molto ricco, si assenta con scuse varie durante il giorno per riapparire al tramonto, raccomanda ad Harker di non entrare nelle stanze con la porta chiusa senza fornire una spiegazione ragionevole, e così via. Jonathan dapprima crede siano tutte stranezze di un cliente importante, ma via via si rende conto che il castello nasconde un orribile segreto e che lui anziché essere ospite è prigioniero dell’uomo – se di uomo davvero si tratta – chiamato Dracula...
Con questo romanzo del 1897, Bram Stoker reinventa un mito rielaborando genialmente due ingredienti non originali: il folklore europeo (è noto che si divorò il saggio che Emily Gerard aveva dedicato nel 1885 alle superstizioni transilvane) e l’immagine del vampiro come fascinoso e perverso aristocratico tirata fuori dal cilindro da John Polidori nel suo celebre ma sottovalutatissimo romanzo del 1819. Ma nonostante abbia dato le coordinate per una icona celebrata da decine di migliaia di libri, migliaia di brani musicali, centinaia di film e decine di spettacoli teatrali, il romanzo non ebbe in principio una grande fortuna di vendite (mentre la critica lo celebrò: probabilmente oggi sarebbe successo l’opposto): chissà, forse influì la dabbenaggine di Stoker, che sbagliando a registrare il copyright negli Usa perse i diritti sulla sua opera nel mercato americano per molti anni. Un errore ben strano per uno che di mestiere faceva il manager, e precisamente l’amministratore – nei quasi vent’anni tra il 1879 e il 1898 – del prestigioso Lyceum Theatre di Londra (peraltro la figura di Dracula fu modellata su quella del celebre attore teatrale Henry Irving, capocomico al Lyceum, che però non acconsentì mai nonostanze le insistenze di Stoker ad interpretare il ruolo del vampiro transilvano), e scriveva romanzi avventurosi o gotici solo nel tempo libero, per arrotondare le entrate. Il libro – magnifico esempio di suspence serratissima nonostante le cadute di ritmo della seconda metà (decisamente troppe le pagine dedicate alla sottotrama di Renfield) e soprattutto nonostante la struttura epistolare, semplicisticamente ritenuta inadatta ai plot ricchi d’azione – viene spesso letto come una gigantesca metafora in salsa vittoriana dei pericoli (ma anche del fascino) della sessualità promiscua. Interpretazioni psicoanalitiche a parte è un horror paradigmatico, potente, che ha la forza espressiva della favola nera e la modernità spigliata di un romanzo di genere.