Salta al contenuto principale

The Every

theevery

In un futuro prossimo, scandito dall’evoluzione tecnologica più rutilante della storia dell’umanità, le pandemie sono ormai alle spalle. Il mondo si identifica in una corporation californiana e nei suoi prodotti. Sono passati cinque anni da quando Il Cerchio, il più potente e diffuso motore di ricerca e social network, si è fuso con il sito di e-commerce più grande al mondo. Ne è nato un monopolio immenso: The Every, brand che allude “a ogni cosa e dunque ubiquità e uguaglianza”. Il suo logo è fatto di tre onde che si infrangono intorno a un cerchio. La sua mission è la promessa di una società con più sicurezza, benessere a portata di mano, uniformità negli stili di vita e nelle opportunità per raggiungere il successo. Al di fuori di quel cerchio, il nulla, l’insignificante. Non esistono più giornali né giornalisti; leggere un libro equivale a partecipare a una ricerca di mercato; molteplici app sono consultate continuamente al posto della propria coscienza, per misurare il gradimento di un cibo o di un’esperienza, per condividere pubblicamente ogni sentimento, per camminare in sicurezza, per evitare qualunque stimolo culturale considerato inappropriato o scorretto. Per rispondere, infine, alla domanda: sono felice? Delaney è una Everywannabe, una dei tanti candidati per un posto di lavoro nel colosso. Ha abbandonato il corpo forestale e l’enclave trog, formata da pochi resistenti senza smartphone, senza dispositivi connessi permanentemente, al limite dell’illegalità. Ha passato parecchio tempo a “costruire diligentemente il suo profilo, il suo sé digitale”, raccogliendo opinioni positive per non deturpare la reputazione social, scansando gli sham, le note di demerito anonime inviate come frecciate (e con video che spesso diventavano virali) ai colpevoli di scarso senso civico. Delaney è pronta a far parte delle risorse umane di The Every: solo dall’interno potrà riuscire a farla implodere…

La successione degli eventi di questo romanzo non è mai noiosa finché l’autore disegna e ci illustra un fatto interamente di scroll e click. Ogni gesto, decisione, tappa esistenziale è condiviso e sottoposto al vaglio di una marea di utenti. Da lettori seguiamo con facilità i meccanismi che regolano quei gesti: sono parte naturale delle nostre esperienze quotidiane, sono intuitive come un qualunque sistema operativo o app, sono necessarie. Necessarie e innocue. O, almeno, lo sembrano. Ma come in quell’altra celebre favola, anche nel romanzo di Eggers c’è un grillo parlante. Meno saccente, ma conviene ascoltarlo: “Dio non esaudiva spesso le preghiere, ma le grida nel cyberspazio ricevono sempre una risposta (…) Tutto ciò che offriva Dio - risposte, chiarezza, miracoli, nomi per i neonati - internet lo fa meglio. Lo sai quante volte la gente ha cercato on line Qual è il significato della vita? sulle vostre piattaforme? Ventuno miliardi”. Si tratta di lettere, scritte a mano e inviate con la antiquata posta, da una vecchia professoressa della protagonista, una persona non connessa e perciò non performante, certamente troppo complessa. Il resto del mondo, di quel mondo, va in direzione contraria: vivere avendo tutto a portata di mano, opinioni comprese, è semplice e profuma di deresponsabilizzazione, di libertà. Sono meccanismi psicologici e narrativi che rimandano certamente a Brave New World di Huxley o, come ha sottolineato Margaret Atwood, che ha praticato il genere con Il racconto dell’ancella, di Zamjatin e del suo capolavoro (poco noto) Noi. Ogni epoca suggerisce una distopia, creata su misura su angosce presenti che non sembrano tali. E, talvolta, una sola distopia non basta. Dave Eggers, dunque, ci consegna ancora una volta un finale lievemente aperto.