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Faccia

Faccia

La faccia è il nostro biglietto da visita. Ci presenta e ci rappresenta quando ci mostriamo al resto del mondo, è ciò che l’istinto dell’altro riceve attraverso gli occhi. Siamo noi, in primis, per il nostro prossimo e spesso è difficile tornare indietro da quella prima impressione visiva per cambiare la nostra opinione. Dopo il primo sguardo, l’immagine impressa sulla retina resterà sempre quella e ci accompagnerà a ogni successivo incontro. Di faccia si parla, dunque, e non di volto. Qualcosa di materiale, fisico e tangibile, scevro da intenzioni filosofiche, poetiche che invece la parola volto richiama. La faccia ci caratterizza, ci identifica anche sul documento di identità, ma in realtà è un concetto che si ritrova ovunque e da sempre. Nei modi di dire, ad esempio: faccia tosta, ci metto la faccia, faccia da schiaffi; nella tecnologia esiste l’interfaccia utente. Cosa accade quindi quando una faccia risulta deturpata, deformata da una malattia, da una malformazione congenita o da un incidente? Proprio per quanto detto sopra, una deformità facciale implica un’esclusione sociale, una condanna all’isolamento che trova testimonianze nella storia recente e passata come nel presente. Ci si ricorderà di Joseph Merrick, The Elephant Man, il cui corpo quasi interamente deformato dalla malattia era tra le maggiori attrazioni freak della Londra tardo vittoriana, e che venne portato sul grande schermo da David Lynch nel 1980. Non tutti invece si ricorderanno Le gueules cassées, i reduci francesi della Grande Guerra sfigurati in volto e che vennero curati con quelle tecniche che oggi sono alla base della chirurgia maxillo-facciale. Uomini che non avrebbero desiderato altro che confondersi tra la gente, vivere la normalità come chiunque, con una faccia intera, bella o brutta, ma che li avrebbe fatti sentire uomini completi...

Si parla di mascherine, da due anni a questa parte, e oramai il vocabolo fa parte della nostra quotidianità. Ma all’epoca delle gueules cassées, le mascherine che rimpiazzavano il pezzo mancante della faccia erano tra le poche cure per questi giovani disgraziati, sopravvissuti alla guerra ma sfigurati in viso. Tutti loro cercavano la normalità, la completezza di una faccia che non riconoscevano più. Lo stesso sentimento che muove chi oggi è portatore, come l’autore di questo interessante libretto, della Sindrome di Treacher Collins Franceschetti. Una malformazione che può portare menomazioni fisiche più o meno gravi ma che sempre ha forti implicazioni sociali e lavorative. Molti avranno letto il fortunato romanzo Wonder di R.J. Palacio o visto la sua trasposizione cinematografica a cura di Stephen Chbosky, con Julia Roberts e Owen Wilson, che racconta la storia che racconta la storia del piccolo August, portatore della stessa sindrome di Antonio Marturano. Il breve saggio uscito per Fefè Editore è una piccola finestra che si spalanca e ci invita a guardare. Attraverso rimandi a personaggi noti come The Elephant Man e i reduci di guerra, ripercorrendo le loro storie fino a raccontare la propria - dalla Taranto degli anni Sessanta “altamente cinica, finto borghese, tradizionalista, superficiale, in cui l’importanza dell’apparire e dello status quo sono tra i valori maggiormente seguiti”, a Roma “città vivace, aperta e completamente diversa da Taranto, dove anche un bambino con una malformazione poteva vivere una vita sociale normale”, Antonio Marturano ci porta a riconsiderare quali siano i valori importanti per la nostra società, fatta di individui soggiogati dai sistemi produttivi capitalistici che hanno instillato culti estetici e culturali i quali, anziché unire, separano. Deforme significa prima di tutto avere un aspetto spiacevole perché diverso dal consueto, da quei canoni appunto che ci hanno venduto per corretti, facendoci dimenticare che dietro ciascuna faccia c’è un sentimento, un individuo al quale il nostro sguardo sta già sbarrando la strada.