
Marco Risi lo dichiara subito: non vuole scrivere una biografia del leggendario padre Dino, ma ripercorrere la sua eredità fatta di ricordi, di lui e con lui, insieme e separati, riavvolgendo la pellicola, ripercorrendo a ritroso la sua vita, la loro vita, quella della loro famiglia, della mamma di Marco, e anche dell’Italia, l’esistenza di un paese che negli anni Cinquanta e Sessanta esce dalla guerra e ha fame e sete di benessere. La scrittura dura quindi sei anni, e procede per appunti, giustapposizioni di immagini, episodi, come risposta a coloro i quali gli chiedono da sempre, ogni volta che racconta per esempio di Scorsese e del suo professore di cinema innamorati de Il sorpasso, di immortalare questi avvenimenti nero su bianco. E così inizia a lasciarsi andare allo sciabordio della memoria: è il settembre del 2006, due anni prima che suo padre muoia, quando in viale Parioli, a Roma, alla Scala, il suo ristorante preferito, Dino Risi se ne esce dicendo che guarda con una certa simpatia dei cucchiaini di metallo grigi in una vaschetta di vetro. Fa un certo effetto, dice, guardare le cose sapendo che probabilmente le stai guardando per l’ultima volta. Un effetto strano. Chissà che non pensi a quel celebre racconto di O. Henry: un uomo a letto, malato, osserva tutto il giorno l’albero che sta di fronte alla finestra della sua camera. Sta perdendo le foglie e si convince che quando cadrà anche l’ultima morirà. Allora un amico pittore decide nottetempo di dipingere quella foglia sul muro dietro all’albero in modo da dare all’amico malato l’illusione che la foglia c’è ancora e resiste, come dovrebbe fare lui. E così va. L’uomo si sveglia, vede che la foglia è ancora lì, sorride, s’intuisce che si riprenderà. Non si accorge che ai piedi della scala ancora appoggiata al muro c’è l’amico pittore con il pennello in mano, morto per il freddo…
Figlio di uno dei geni, assieme a Monicelli e Comencini, della commedia all’italiana, spesso feroce e formidabile ritratto di vizi e virtù, ossia Dino Risi, cui presta il corpo per interpretarlo in uno dei migliori e più intimi film di Paolo Virzì, La prima cosa bella, Marco Risi ha deciso di seguire le orme paterne e al tempo stesso di distaccarsene, aprendosi una strada tutta sua. Questo variegato rapporto, contraddittorio e intenso, emerge in queste pagine ricchissime di personaggi più o meno celebri, aneddoti e citazioni, in tutta la sua articolata e paradigmatica complessità, pienamente calata nel contesto della settima arte e della storia d’Italia e del Novecento. Regista nonché sceneggiatore e produttore, che ha esordito nel cinema trentunenne nel 1982 con la prima di tre commedie con Jerry Calà, Vado a vivere da solo per poi virare perlopiù verso un cinema di impegno civile e di icastica rappresentazione del reale nelle sue sfumature anche ironiche, grottesche, cupe e abiette, con pellicole come Soldati, Mery per sempre, Ragazzi fuori, Il muro di gomma, Il branco, L’ultimo capodanno, tratto da Ammaniti, Tre mogli, Maradona – La mano de Dios, Fortapàsc, biopic su Giancarlo Siani, giornalista ammazzato dalla camorra, Cha cha cha e Tre tocchi, qui è nelle vesti di scrittore. E di figlio che regola finalmente i conti con un genitore monumentale, momento da sempre e per definizione assai impegnativo e carico di senso e simboli.