
Etiopia, aeroporto di Addis Abeba, il “giornalista in erba” è appena atterrato, è la sua prima volta in Africa. Non sono l’aria appiccicosa, il traffico labirintico, le voci incomprensibili a disorientarlo. Uno sguardo involontario gli fa scorgere quello di un bimbo smagrito e smarrito che si affaccia da un tombino. “Mi avevano raccontato dei bambini-topi, ma non ci credevo”: sono orfani, non hanno nulla, vivono in un inferno sotto l’asfalto. Il taxi riparte, la visione resta. L’obiettivo della missione del reporter è un altro: raggiungere l’Ogaden, una regione che da anni è teatro di violenze, stupri, stragi, depredazioni. L’esercito etiope massacra i rifugiati somali, l’Occidente ne è quasi completamente ignaro. Del resto, al di là del Mediterraneo anche la Storia e le sue verità sono poco note, colpevolmente. Camminare per la capitale è un’esperienza intensa per un italiano, un tour che comincia dall’obelisco che gli etiopi hanno eretto in memoria delle vittime del 1937 quando, per rappresaglia, il generale Graziani, fascista, ordinò di massacrare i ribelli, dar fuoco alle abitazioni senza curarsi di cosa o chi ci fosse dentro. Per poi fare sul serio: gas chimici, campi di prigionia, violenze inenarrabili sui bambini. Ma questa è un’altra storia. Verso l’Ogaden, passando per le baracche degli slum per poi riprendere un volo e giungere nel villaggio degli ultimi. Un altro bambino entra nella vita del reporter: è un operaio, un tuttofare; diventerà una guida e interprete. A un checkpoint, succede che, oltre ai documenti, i militari con il kalashnikov chiedano anche gli effetti personali del giornalista. Si respira sospetto e paura, nelle reciproche parti. E Mohamed, il ragazzino, sussurra: “Siamo prigionieri, i soldati stanno investigando su di te. Hanno paura che tu possa essere una spia. O magari un giornalista”…
A partire da questo incidente di percorso, si dipana la storia dell’amicizia, della fratellanza, fra Jacopo e Mohamed. I titoli dei capitoli del libro segnano la successione degli eventi: prigionieri, tugurio, bloccati nel deserto, in ospedale, addio… Nella seconda e nella terza parte, il classico “dieci anni dopo”. Ed è questa la scintilla che ha fatto scrivere a Jacopo Storni il diario/reportage del suo “Viaggio al termine dell’Africa” - come da sottotitolo. Il giornalista fiorentino (“Corriere della Sera” e “Redattore Sociale”), esperto di temi internazionali, dall’immigrazione al terrorismo, torna in Etiopia per cercare la verità e il suo compagno di prigionia, un fratello. L’esperienza vissuta assieme aveva fatto nascere tra loro un dialogo, un incontro tra due mondi opposti e così si era concluso, in modo opposto: l’occidentale libero (sebbene colpito dalla colpa di essere il responsabile degli eventi), il povero ragazzo in balia del potere corrotto e violento, recluso, torturato. Il racconto segue un filo che dalla cronaca nei toni più rigorosi del reportage si stempera nei dialoghi fra i due “fratelli”. Sono parole che sicuramente sono rimaste scolpite nel cuore di Storni per un decennio. Ed è perciò comprensibile il suo ritorno e il tentativo di portare Mohamed in Italia. Non sarà una scelta priva di dubbi. Cosa cerca la generazione di Mohamed in Europa? “Tutti gli africani - risponde a Jacopo - raccontano che sembra di vivere nel futuro, sembra un luogo di fantascienza, vorrei vederlo per potermi dare un’altra possibilità (…) un’opportunità di tentare”.