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Fuoco

Fuoco

Germania, venerdì. Chi scrive, cioè Kasih, non è: il prodotto di una società integrata, una ragazza da fissare con compassione per poter dire poi di essersi occupati di migranti, la ragazza del ghetto. Allo stesso tempo però lo è, una ragazza del ghetto. È anche semplicemente una ragazza che ora sta scrivendo, mentre aspetta che la sua amica Saya esca di galera. Saya è in prigione perché è stata accusata di avere appiccato fuoco a un pub frequentato da estremisti di destra. Già, Saya, che per qualche giorno avrebbe dovuto passare le vacanze da Kasih e andare assieme a lei e ad Hani al matrimonio di Shaghayegh. Saya era arrivata in città qualche giorno prima, di martedì, in aereo. Un volo fastidiosissimo, c’era uno che per tutta la durata non aveva mai smesso di parlarle. E poi l’episodio della donna: a un certo punto era salita una donna coperta da un velo che si era trovata il posto occupato, l’aveva fatto notare e in risposta le avevano detto che si sbagliava, che il suo posto era un altro e che là si sarebbe dovuta sedere. Poi, una volta trovata una soluzione, la signora aveva chiesto aiuto all’assistente di volo, perché era incinta e non riusciva a sollevare il suo bagaglio a mano e a infilarlo nella cappelliera. L’assistente l’aveva aiutata, senza però mancare di rimproverarla e di farla sentire in colpa per il peso del suo collo...

Drei Kameradinnen - “Tre compagne” – è il titolo di quest’opera in tedesco. Tre compagne che rispondo al nome di Kasih, Saya e Hani. Tre ragazze che non hanno origini tedesche, ma sono arrivate in Germania da profughe a causa di problemi nei loro Paesi di nascita. Da quale posto nel mondo arrivino, è solamente ipotizzabile. Potrebbe essere l’Iran: l’autrice, Shida Bazyar, ha origini iraniane. Ma potrebbe essere un qualsiasi altro luogo del Medio Oriente. Né l’autrice né la narratrice ritengono importante farlo sapere, probabilmente perché più che una funzione descrittiva, quest’informazione farebbe da leva per pensieri e pregiudizi di natura razzista. E forse non serve aggiungere altro razzismo a quello che permea Fuoco, questo il titolo italiano del romanzo di Shida Bazyar, ambientato in una non precisata città della Germania nell’arco di tre/quattro giorni. Queste approssimazioni – il non definire i luoghi precisi delle vicende narrate – sono il primo strumento d’impatto con cui Bazyar denuncia il fallimento dell’occidente nella lotta al razzismo. La mancanza di una collocazione geografica fa sì che questo romanzo potrebbe essere potenzialmente ambientato non solo in qualsiasi parte della Germania, ma nell’Europa intera, ed è ipocrita anche solo provare a negarlo. L’Europa intera è razzista, e qualora non bastassero le morti indifferenti nel Mediterraneo a negarlo, ciascuno può scoprire il proprio livello personale leggendo Fuoco. Inevitabilmente arriverà per tutti il momento in cui, dopo aver letto un determinato passaggio, ci si ritroverà in un dato comportamento da uomo bianco. È innegabile, matematico. Così come non è opinabile il fatto che tutti gli episodi narrati in Fuoco non sono solo parole su un foglio, ma vicende che avvengono quotidianamente e vessano le Kasih, le Saya e le Hani di questo mondo. L’uomo bianco ne è causa, complice, testimone o spettatore disinteressato. Qualunque cosa esso sia, non è mai e poi mai esente da colpe.