
Arthur Galleij ha affrontato il viaggio in treno da St Pölten a Vienna per frequentare le lezioni all’Università. Non vuole entrare da solo nell’auditorium e non vuole interagire con gli altri, teme le loro domande e non intende iniziare quel nuovo capitolo della sua vita mentendo. Non vuole parlare del fatto che è stato in carcere. Si dirige verso la luminosa macchina per il caffè, ma i numerosi passaggi richiesti per avere la tazza e la sua goffaggine attirano l’attenzione. La necessità di defilarsi è impellente. Ripensa a un giorno di giugno 2010, quando si è presentato presso la casa del decimo distretto dove Bettina Bergner lo aspettava dopo la sua scarcerazione dal carcere di Gerlitz, insieme al terapeuta, il dottor Konstantin Vogl, da tutti soprannominato Börd. Il bizzarro dottore che gli ha domandato se era in grado di inserire i simboli sullo smartphone, ben sapendo che proprio nel momento in cui gli smartphone conquistavano il mercato Arthur entrava in carcere. È Bettina a spiegargli la procedura e la pratica del “discorso nero”: il dottor Vogl gli darà degli argomenti e lui dovrà registrare le sue considerazioni personali su un nastro che invierà loro, le sue parole verranno trascritte e analizzate, da quelle parole verrà fuori la terapia, anche se il dottore non vuole venga definita in quel modo, lui preferisce il “principio dello starring” da star, protagonista. L’obiettivo è sia evitare che Arthur commetta altri reati, sia tirare fuori la versione migliore di lui, quella che dovrà recitare nelle situazioni critiche. Per raggiungere il risultato hanno a disposizione dieci incontri. Il primo argomento proposto è l’adolescenza e Arthur decide di partire dalle sue origini: la nascita il 29 maggio 1988 e il fatto che il nome che porta lo ha imposto il padre, mentre sua madre Marianne desiderava chiamarlo Mario. Ha pensato spesso a quel nome in carcere, a una seconda possibilità, cancellare tutto e ricominciare, ma “questo è solo uno stupido sogno”…
È attraverso la trascrizione delle registrazioni che invia al dottor Vogl, che impariamo a conoscere Arthur. A capire come determinate esperienze che ha vissuto nell’infanzia e nell’adolescenza abbiano condizionato il suo atteggiamento. Le persone che hanno fatto parte della sua vita, che lo hanno influenzato, amato, trascurato, capito, ignorato, ciascuna a suo modo ha lasciato il segno. Arthur, uscito dal carcere, trova una rete di supporto: la comunità di recupero, la terapia, le riunioni, le riflessioni e il feedback quotidiano, tutto il pacchetto che serve a tenerlo in riga, a motivarlo, a fargli trascorrere un anno intero senza finire nei guai, ma dopo? Sarà uno tra i tanti che non ha “nulla da esibire sul grande libero mercato”. Lavoro, partner, casa. Sono queste le cose che interessano le persone, gli argomenti di conversazione principali e Arthur ne è privo. E questo è terrificante. Birgit Birnbacher attinge alla sua personale esperienza come assistente sociale per offrire ai lettori una testimonianza efficace di quali siano le paure, i dubbi, le fragilità di chi trascorre in prigione un periodo della propria vita, per poi trovarsi di fronte un mondo e una società che sono andati avanti, che non aspettano chi è in difficoltà. Spesso non si hanno a disposizione strumenti adeguati, per rimettersi al passo con il tempo perduto e recuperare ciò che si è perso. Conoscenze, affetti, capacità di interazione sociale, tutto svanito. Dentro il carcere è terribile, ma fuori può essere altrettanto spaventoso. Pluripremiata autrice austriaca, attenta al mondo giovanile e alle difficoltà che i ragazzi si trovano a dover affrontare nella frenetica società odierna, Birgit Birnbacher rivela la sua sensibilità nell’esplorare gli aspetti psicologici di una tra le esperienze più intense e dolorose che si possano affrontare. Fuori è il suo secondo romanzo, il solo per il momento a essere stato tradotto in Italia.
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