
Roma. Penny la “pantecana”, bastardina decenne che assomiglia a un topo, guarda il padrone con intensità implorante, e chiede rifugio tra le sue braccia, per poter continuare a ignorare il coniglio, presenza scomoda e fastidiosa. Bianco (ma diabolico) pelouche vivente, Nina è un rosicchiatore di mobili e oggetti, in continua e tentata fuga, pegno d’amore da Tiziano a Costanza, figlia quindicenne, rimasto anche dopo la fine del loro amore eterno. Il dottor Mastorna ha lasciato il lavoro, ne è felice per diversi motivi, tra cui l’esigua metratura dell’ufficio, ma la sveglia resta tarata alle sette, mentre la moglie si rigira per continuare a dormire: lui invece deve accompagnare Costanza a scuola, dopo una lotta impari con un’adolescente stropicciata e ritardataria che non ha mai preso l’autobus, disarmato bersaglio mobile del fuoco incrociato tra madre e figlia. Oscillando nell’indecisione tra la divisa d’ordinanza (camicia, maglione, biancheria e pantaloni) e il cappotto sul pigiama, sceglie quest’ultima opzione, senza necessità di pettine o rasoio, guadagnando così il tempo per portare giù il cane e la sua fiatella assassina. Un attimo di distrazione del padrone è fatale e Penny, debole di stomaco e di vescica, lascia il segno sullo stuoino d’ingresso, suscitando così i consigli di pulizia del generale D’Amico, che grazie ai test attitudinali per entrare in aeronautica, conosce anche le proprietà di esaltatore di molecole organiche dell’alcool…
Ironico, tagliente, sfrontato: una parodia della vita e della quotidianità, raccontata con una prosa complessa che spazia dallo stile colloquiale e ludico ricco di giochi di parole a un linguaggio ricco e aforistico, finanche a guizzi letterari aulici e neologismi musicali, e il contrasto che ne risulta contribuisce all’ironia e allo scherno di una normalità vissuta, ripercorsa e analizzata nel tentativo anche di sdrammatizzarla. Un padre arrendevole e ignavo che va a ingrossare “l’esercito dei rassegnati”: la vita gli scivola addosso senza che riesca ad afferrarla, a farsi valere. Subisce l’adolescenza della figlia, la crisi di coppia e assiste conciliante al declino della sua credibilità in toto: di uomo, di padre, di marito, mentre come una pallina salta tra “libertà, vaghezza, vigilanza, governo” generando un “attrito di illusioni”. Sapo Matteucci ci regala un romanzo pensato e maturato nel suo grembo di scrittore per decenni, aspettando il momento giusto che, in effetti, si è rivelato perfetto, offrendo un’opera introspettiva, analitica, metaforica e nello stesso tempo permeata di realismo. Scorre lento e sonnacchioso, senza colpi di scena, così come il protagonista che racconta in prima persona, senza slanci vitali. Amore genitoriale incondizionato, adolescenza, illusioni e disillusioni, morale, inquietudine, genitorialità, abbandono, infelicità, difficoltà quotidiane e consolidate routine sono i temi di quest’opera struggente e dolceamara, che spinge alla riflessione e a guardare indietro la nostra vita e “la nostra difficoltà che non avevamo il coraggio di chiamare infelicità”.