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Gente a cui si fa notte inanzi sera

Gente a cui si fa notte inanzi sera

La possibilità di decidere di porre termine alla vita di un uomo giudicato colpevole di un reato attraverso l’emissione di una sentenza di morte è stata da sempre una delle modalità con cui il Potere costituito ha difeso la propria esistenza, stabilendo il primato dello Stato sul singolo per mezzo della “messa in scena” di uno spettacolo con un rigido cerimoniale, destinato, almeno nelle intenzioni, a incutere timore ed esplicitare le piene e fatali conseguenze di un atto grave compiuto contro la Legge. Solo nel 1764, con la pubblicazione di Dei delitti e delle pene, libello dell’illuminista Cesare Beccaria, si inizia a ragionare circa il significato ed il reale impatto sociale delle pene inflitte, compresa quella capitale, e nel 1786 il Granducato di Toscana diviene la prima nazione al mondo ad abolire la pena di morte. Dalla tecnica dell’impiccagione, che prevedeva l’azione combinata del “manigoldo” e del “tirapiedi” per ottenere “ordinariamente la morte in modo quasi istantaneo” al supplizio mediante squartamento - ovvero divisione in “quarti” del condannato -, passando per roghi, impalamenti, strangolamenti e decapitazioni mediante strumenti più o meno tecnologicamente avanzati, sono molti i modi in cui la massima delle condanne possibili è stata applicata nel corso dei secoli. E non si tratta di un mero retaggio storico, dal momento che “è molto probabile che proprio in questo momento, in qualche parte del mondo, qualcuno stia salendo i gradini che lo porteranno a una morte prematura”…

Tito Saffioti, giornalista con una predilezione per il periodo medievale che già in passato si è occupato di giullari, buffoni di corte, folklore e musica popolare, prende il titolo di questo saggio da un verso dal poemetto Il trionfo della morte di Francesco Petrarca. A meno che non si sia storicamente interessati allo specifico argomento, o non si possieda una qualche forma di morbosa curiosità per gli svariati modi in cui l’uomo si è ingegnato - e si ingegna, anche ai giorni nostri - di comminare la pena capitale, è davvero faticoso affrontare le puntuali, dettagliatissime descrizioni (alcune fornite da autori come Dickens, Orwell, Twain, Turgenev) di ben trentasette esecuzioni e la conseguente straniante sensazione quasi di compiaciuta ridondanza espositiva, legata alle molte similitudini tra le storie raccontate. Per dirla con le parole di William Makepeace Thackeray, scrittore britannico che di Charles Dickens fu contemporaneo, dopo aver assistito all’impiccagione di un giovane servitore condannato al patibolo per aver assassinato il suo padrone, quel che prevale è: “[…] una straordinaria sensazione di terrore e di vergogna. Mi sembra di aver assecondato un gesto di spaventosa malvagità e violenza eseguita da un gruppo di uomini contro un loro simile […]. Confesso che stamane sono ridisceso da Snow Hill con un gran disgusto verso l’omicidio, ma era per l’omicidio che avevo visto commettere”. Al di là dell’accurato lavoro di ricerca, testimoniato dall’ampio ricorso a testi originali, questa “antologia della pena di morte” lascia nel lettore una traccia di crescente angoscia, di profonda malinconia, in molti passi di puro orrore.