
È il 1925, siamo nel mese di dicembre, e a Stoccolma sta per tenersi un evento storico: il venticinquesimo anniversario della istituzione del Premio Nobel. Invitati per l’occasione, sono perciò presenti tutti i vincitori del prestigioso riconoscimento ancora in vita, compreso il tanto discusso Albert Einstein. Quest’ultimo, infatti, è già una celebrità in tutto il mondo, anche negli ambienti non scientifici, e proprio per questo viene guardato con sospetto da molti colleghi che lo considerano invece un filosofo bislacco più che un fisico. Sta per avvenire però qualcosa di totalmente inatteso: nell’arco di poche ore vengono ritrovati i corpi di due dei partecipanti alla celebrazione. Verrebbe da pensare a drammatiche fatalità disconnesse tra loro, ma una serie di indizi sembrano invece dimostrare che ci sia un assassino all’opera. E toccherà allora proprio al simpatico Albert, aiutato dal suo allievo dalla memoria prodigiosa, a risolvere l’enigma, partendo da due domande fondamentali: per quale ragione gli omicidi sembrano replicare puntigliosamente alcuni celebri esperimenti che hanno segnato la storia della scienza? E in quale modo questi crimini si legano alla storia di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite che concepì il famoso premio affinché il suo ricordo non fosse legato esclusivamente agli armamenti?
Bucchi, sfruttando tutte le sue conoscenze di divulgatore scientifico, con questo romanzo imbastisce una classica storia gialla. Nei capitoli finali spiega infatti che la storia è una sua opera di fantasia, ma ciononostante sono innumerevoli i riferimenti alla realtà e le curiosità rintracciabili nel testo, soprattutto riguardanti Alfred Nobel e Albert Einstein. Quest’ultimo diviene così addirittura l’investigatore, dimostrandosi palesemente un novello Sherlock Holmes. Se infatti l’intelligenza necessaria per risolvere il caso non gli manca, Bucchi sottolinea anche altri punti in comune tra il padre della relatività e il personaggio creato da Arthur Conan Doyle: l’amore per la pipa e il violino, ad esempio, ma anche l’immancabile assistente, che in questo caso si chiama non Watson bensì Leó Szilárd. Se però il romanzo è interessante dal punto di vista delle curiosità biografiche, come giallo risulta invece un po’ debole. Senza fare spoiler, è inevitabile rilevare infatti che alla fine l’assassino sia l’unico personaggio esterno alla cerchia dei protagonisti che si veda realmente agire (sì, ci sarebbero un altro paio di sospettati, ma sono appunto così tanto sospettabili che il lettore esperto li escluderà a priori). La sensazione, insomma, è che questo libro parta da un’idea di grande potenziale narrativo, ma che essa sia rimasta appunto soltanto un’idea non realizzata al meglio.