
A chi importa della crisi dei giornali? Qualcuno pensa che il crollo delle vendite sia la naturale conseguenza da una parte dell’attuale cattiva qualità media che viene offerta oggi e dall’altra della facilità con cui ci si informa gratuitamente online. Gad Lerner, “uno che viene dalla gavetta”, attraverso il racconto della sua carriera può suggerire il metodo per restituire senso alla professione del giornalista, portandola fuori dall’infotainment e individuando nuove vie con il grande amore che ha per il suo lavoro che nasce sulla strada a cui dà voce e che se rischia di scomparire può portare grave danno a tutti. Il suo primo articolo è del dicembre 1976. Gad Lerner ha 22 anni, è politicamente impegnato e scrive un pezzo che si intitola I funerali del compagno Walter. Lo fa per la testata “Lotta Continua”. Parla di Walter Alasia, brigatista, anche se i suoi compagni ignoravano la sua scelta di far parte della lotta armata. Tutto è successo in un attimo: la polizia fa irruzione a casa sua per arrestarlo, lui reagisce, spara e uccide il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani e viene ucciso subito dopo. I suoi compagni rimangono scossi da questa morte, ma ancor di più dalla rivelazione della sua scelta criminale. Il direttore di “Lotta Continua”, Enrico Deaglio, chiede a Lerner di scriverne e lui sceglie proprio di raccontare lo stupore della scelta di Walter Alasia che concepisce la lotta politica come lotta armata, eliminando fisicamente esseri umani che considera nemici...
Non solo la sua professione, ma anche la vita (nonostante spesso coincidano), gli aneddoti, le amicizie (per esempio quella con Jacopo Fo, suo ex compagno di scuola, grazie alla cui amicizia Lerner spazzava la sala del Circolo “La Comune” di Dario Fo e Franca Rame dopo gli spettacoli per guadagnare qualche soldo, in un tempo in cui scrivere e fare politica spesso erano la stessa cosa). “Non ci pensavamo giornalisti, ma militanti. Eravamo convinti che la nostra causa di liberazione venisse sfregiata con la scorciatoia delle pistole...”. Il “giornalista da marciapiede”, utilizzando quello che vorrebbe restasse il suo imprinting, di certo non ha mai gradito il lavoro al desk quanto la strada (“Ho sempre guardato con diffidenza alle scuole di giornalismo”). Si è anche finto “vu cumprà” (come si diceva allora) per documentare la vita e lo sfruttamento del lavoratore nei campi, approfittando dei suoi capelli neri e ricci e del colorito scuro della pelle dopo un po’ di abbronzatura: ha scelto sempre di immedesimarsi per fare informazione di qualità. Ma è ancora possibile nonostante il suo alto esempio? È uno degli ultimi che crede che, nel giornalismo, missione e professione vadano a braccetto insieme e non ha mai derogato a questa consapevolezza, ma coscientemente sa anche che nelle testate giornalistiche oggi c’è solo precariato e che gli editori stanno tagliando costi a mani basse, rendendo un contratto da giornalista (prima così privilegiato) alla stessa stregua di un contratto da operaio. Ma “il giornalismo è una disciplina nobile come la musica, l’arte, la letteratura: sono l’originalità dell’approccio e del racconto a conferirti forza contrattuale”.