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Giù le zampe

Giù le zampe

Lucía vive con la mamma, il fratello Fede, la nonna Chana e il papà Alberto. A volte lei e Fede giocano ad uccidere i mostri, anche se lui cerca di terrorizzarla, come quando le ha raccontato degli scarafaggi. Sono invisibili e invincibili, senza ombra di dubbio gli insetti più schifosi del mondo! Quando Fede è a scuola, Lucía passa spesso le mattinate sola con la nonna. Si tiene occupata cercando nascondigli – il suo preferito è dietro al materasso dei suoi genitori. Ha trovato persino Dio, quello di cui parla sempre la nonna, nel gabinetto! A volte, quando suo padre torna a casa, è circondato da fantasmi che solo Lucía può vedere. Quando torna la mamma Lucía è contenta. Raggiungono Fede e la mamma racconta loro delle storie. A volte invece sentono il papà urlare, allora il fratello mette su un po’ musica. A Lucía piace la musica, ogni tanto Alberto fa usare loro il giradischi e possono ascoltare il jazz, il blues, la musica classica. Oltre ai fantasmi, Lucía può vedere i topi. Sono sempre con lei. Sono loro a chiuderle gli occhi quando, certe notti, Alberto si infila nel suo letto…

Gli scarafaggi sono l’incubo di Lucía, giovanissima protagonista del primo graphic novel dell’argentina Gato Fernandez, allieva del grande Carlo Trillo – il titolo originale del libro, diventato per l’edizione italiana Giù le zampe, è infatti El golpe de la cucaracha, il colpo dello scarafaggio (all’inizio del libro un’annotazione aiuta a comprendere la scelta: l’espressione francese corrispondente, coup de cafard, significa “avere una profonda depressione”). Si annidano ovunque, nel buio, silenziosi e implacabili. E proprio come gli scarafaggi, nel silenzio e nell’ombra passano le violenze subite dalla piccola nel contesto che più di tutti dovrebbe proteggerla, quello familiare. La storia di Lucía è una storia vera: la confessione autobiografica della Fernandez, abusata dal padre biologico dai 3 ai 7 anni. L’autrice trascina sulla pagina bianca la propria esperienza in una storia breve, terribile e toccante. Popola il mondo di Lucía di fantasie a volte distorte e inquietanti – bordelli frequentati da animali antropomorfi, ombre che avvinghiano, topi a farle da scudo e coscienza –, a volte salvifiche – i giochi che vedono Lucía e il fratello nelle vesti di distruttori di mostri, un Dio amichevole che le parla dal gabinetto. Invenzioni infantili attraverso le quali l’innocenza della piccola tenta di dare un senso alla crudeltà. Ma a volte i piani sovrapposti si sfasano, a volte Lucía non può non guardare, e allora non c’è fantasia che possa proteggere dalla realtà, orribile al di là di ogni immaginazione, cui si aggiunge il trauma dell’incomprensione materna. Il messaggio di Gato Fernandez arriva al lettore con violenza, attraverso un lavoro che trabocca di dolorosa tenerezza, perfettamente sostenuta dall’uso di colori desaturati e da tratti delicati e nervosi ad un tempo. Un atto di grandissimo coraggio che per vedere la luce, spiega l’autrice nella postfazione, ha richiesto “tre anni dolorosi, pieni di attacchi di panico, depressione, ansia e una lavanda gastrica”. Pagine nate “per necessità” che ci rivelano l’importanza e il dovere di “non voltarsi dall’altra parte”, perché è solo così che i mostri possono essere sconfitti.