
È il febbraio del 1903, Zaccaria e suo cugino Samuele fanno un giro in calesse in Lucchesia. Samuele, di qualche anno più grande, si è appena laureato in ingegneria. La sua passione non è certo lo studio, il suo vero amore è la lirica. Non è un compositore, strimpella appena il pianoforte, ma vuole fare l’impresario, come il suo prozio, che organizza spettacoli lirici itineranti. L’opera lirica è la moda del momento e con Verdi ha anche una connotazione politica. Scorrazzano contenti per la bella campagna toscana i due cugini di Ancona, pensando alla finocchiona che gusteranno e al chianti che berranno. All’inferno i dettami della kasherut, gli ebrei italiani non vivono nel deserto, dove la carne di maiale può essere pericolosa. Sono molto amici tra loro, pur avendo caratteri totalmente diversi. Zaccaria è serio, attento ai cambiamenti politici, un lettore vorace, lavoratore e ligio al dovere. Samuele è ironico, scanzonato, poco praticante la sinagoga e adora Puccini. Quel giorno tutti e due sperano di incontrare il loro idolo, proprio Giacomo Puccini. E lo trovano tra un albero di olivo e un cipresso, sotto un’Isotta Fraschini che gli si è ribaltata addosso. Dapprima non lo riconoscono. Notano che accanto a lui giace svenuta una ragazza. Samuele riparte veloce col calesse per chiedere aiuto e lascia Zaccaria con i feriti. Il Maestro ha un braccio sanguinante e una gamba sotto la macchina, ma la sua preoccupazione più grande è Clelia, la sua amante, nessuno deve sapere che è con lui, tantomeno la sua gelosa moglie Elvira. Zaccaria lo rassicura, né lui né suo cugino intendono ricattarlo. Una cosa sgradevole però accade. All’udire il nome Zaccaria, Puccini esclama: “Come? Zaccaria? Che nome! Non sarai uno di quelli, un giudeo?”. Zaccaria si sente profondamente ferito da quel commento antisemita. È ebreo, sì, ma è un italiano…
In Giudei di Gaia Servadio scorrono con il sottofondo di Verdi e Puccini le vicissitudini dei due cugini. In effetti la musica è una grande presenza nel romanzo, nell’anima ebraica e nella scrittrice stessa. È il Novecento che viene ripercorso in Giudei attraverso la storia di due nuclei familiari, che, per un matrimonio combinato, diventano uno solo. Quattro generazioni di personaggi un po’ veri e un po’ inventati, cui appartiene anche l’autrice. I Levi: intellettuali, antifascisti, amanti dell’arte, innamorati dell’italiano, laici, impegnati culturalmente e politicamente, benestanti, che vivono nelle Marche tra Ancona e la tenuta di Torrette. Zaccaria frequenta Turati ed è consapevole dei problemi della nazione. Si sente in debito verso i libri, vuole che tutti abbiano accesso alla cultura per raggiungere conoscenza e felicità. Per questo fonda la sua casa editrice ad Ancona, gli Argonauti. I Foà, torinesi e filosabaudi, molto osservanti, sono i fieri rappresentanti di una piccola borghesia chiusa e conservatrice. Il Generale Moisè Foà non si occupa di politica non è bene per un militare, ammira la cultura prussiana, vive tranquillamente, non protesta mai. La loro agiatezza però è solo di facciata. A Torino vive anche Sara, figlia di Moisè e sorella di Rebecca. La sua casa è un cenacolo di antifascisti piemontesi, tanto che poi lei sarà rinchiusa a Fossoli e finirà ad Auschwitz. Suo fratello Elia Foà è invece fascista e a Milano frequenta casa Sarfatti e conosce Mussolini. Col matrimonio di Zaccaria Levi e Rebecca Foà si intrecciano storie e destini lungo un secolo intero: una guerra, poi l’altra, e in mezzo le leggi razziali, nuove famiglie e bambini, le persecuzioni, il fronte, le partenze, le perdite. È la fatica di continuare a vivere nonostante tutto e di reinventarsi in un mondo nuovo. C’è una folla di personaggi legati da parentele e affinità, qualche volta divisi da scelte che li allontaneranno: i figli di Zaccaria coi loro bei nomi letterari, Ariel, Cielo, Miranda; la piccola luminosa orfana Giovanna, figlia di Samuele; Kate, in fuga coraggiosa dalle bombe con i suoi bambini; Prospero, che passa dalla resistenza alla politica. Anche se gli italiani sono un misto di razze e ceppi: greci, fenici, longobardi, unni, normanni, liguri, diventano antisemiti. Le leggi razziali del 5 settembre del 1938, sono uno spartiacque. Con un’efficace propaganda di regime si arriva a tutto. Torture e pestaggi sono per tutti ebrei e per estorcere le delazioni gli italiani sono pari ai tedeschi. Il voltafaccia degli italiani fu una pugnalata alle spalle per gli ebrei. Il 16 ottobre 1943 a Portico d’Ottavia a Roma un rastrellamento fatto sotto il naso, silenzioso, del Papa, spazza via gli ebrei romani. I fili spezzati delle vite si sommano, i sopravvissuti alla Shoah si vergognano di esserlo, vittime scampate all’orrore dei campi, rimangono silenziosi per molto tempo. Passano gli anni arriva la repubblica, la democrazia e se non si possono più additare gli ebrei come nemici, ne sono rimasti proprio pochi, allora tanto vale inventare il pericolo rosso. Gaia Servadio usa un diverso registro nel dare voce ai numerosi personaggi e li differenzia tutti benissimo. Tante vite che si intrecciano in modi diversi, scandite dalle cinque parti del romanzo intitolate Gli ebrei, I giudei, I nessuno, Il silenzio, Gli israeliti. Se in realtà le persone restano sempre le stesse, è il modo di considerarle che cambia. Gli ebrei passano da cittadini comuni, al dispregiativo giudei. Diventano invisibili, dopo le leggi razziali. A loro è riservata l’indifferenza, il silenzio, un girare la faccia dall’altra parte per far finta di non vedere l’orrore. In fine il vezzeggiativo israeliti, come se servisse a minimizzare e ingentilire il più diretto, ebrei. Gli ebrei hanno cercato di sopravvivere e ci sono riusciti, e questo, agli occhi del mondo, è un peccato mortale. Appare dunque significativa la citazione tratta dal Talmud, in esergo del volume: “Chi non è mai stato perseguitato non è ebreo”.