
L’elefante Wong si inoltra in fitto boschetto di bambù, incurante dei vecchi cartelli e persino delle esplosioni di polverosi, arrugginiti petardi messi là chissà quando per scacciare gli animali come lui da quella zona, che prima era riservata agli umani e al loro villaggio. Prima. Quando gli umani c’erano ancora, quando il loro villaggio era pieno di vita e di rumori. Ora ci sono solo baracche abbandonate e in parte crollate. Le porte marciscono, fuori dai cardini. “Erano state aperte o divelte, avevano di certo sbattuto per qualche mese al vento, poi il terreno e le foglie si erano accumulati sulla loro risicata traiettoria e, alla lunga, avevano finito per non muoversi più”. I cadaveri degli uomini – di tutti gli uomini, sia le vittime sia gli assassini – sono ormai polvere, Wong quindi rimane assai sorpreso quando da un cespuglio vien fuori una femmina umana, vestita di stracci militari puzzolenti di sterco e con un vecchio lanciarazzi RPG-7 a tracolla. La donna inizia a interrogare Wong, vuole sapere se l’elefante è maschio o femmina e ha una strana urgenza nella voce… Il Re granchio Balbuziar Trecentoquindicesimo si è svegliato da un sonno inquieto e fitto di sogni in una situazione molto complicata: per motivi che non ricorda e non sa spiegarsi, è incastrato, bloccato, saldato a uno scoglio ventre all’aria ed esposto all’aria e ai letali raggi solari. Per quanto si divincoli, è impotente, prigioniero. Forse è anche questo un incubo? Non pare. Balbuziar delira, perde conoscenza, si riscuote soltanto quando l’alta marea lo bagna ma sostanzialmente attende la morte, giorno dopo giorno. Finché non matura un’idea pazzesca per uscire dall’impasse: figliare. Così concentra tutte le sue energie sulle sue viscere, sul suo apparato riproduttivo e comincia a plasmare un erede…
Gli animali hanno tradizionalmente un ruolo molto importante nell’opera di Antoine Volodine (“C’è nel post-esotismo una certa attrazione per gli animali”, ha ammesso lo stesso scrittore in un’intervista nel 2008), e spesso sono animali senzienti, parlanti (non sfugge in tal senso però la scelta da parte dell’autore di chiamare Balbutiar il suo ineffabile Re granchio), antropomorfizzati eppure al tempo stesso alieni, umani e non umani. È un espediente narrativo del resto molto antico e illustre e come tanti prima di lui Volodine parla di non umano per parlare di umano, per descrivere “più l’agonia della società che dello stato squilibrato del mondo naturale”, come ha affermato lo scrittore cenadese Christian Guay-Poliquin. Più che agonizzante, l’umanità descritta (?) da questi frammenti narrativi – che per mera comodità potremmo definire favole, ma ovviamente favole non sono – è morta da un pezzo, estinta. E la scomparsa della specie umana, più che una tragedia, qui è qualcosa che somiglia a una farsa: il tono di Volodine è allo stesso tempo oscuro e divertente, come se l’umorismo fosse un sintomo della disperazione, come fosse l’unico linguaggio possibile per rendere accettabile l’inammissibile. Gli animali che amiamo (178 pagine in tutto, e di piccolo formato) è bizzarro sin dalla sua struttura: c’è una entrevoûte (ovvero un testo con costruzione binaria composto da una prima parte dove è esposto il soggetto e una seconda parte nella quale vengono ripresi alcuni elementi della prima parte per enfatizzarli) dedicata al fato dell’elefante Wong, oggetto delle attenzioni sessuali di una lacera e puzzolente sopravvissuta umana, tre quadri con protagonista il ridicolo, pomposo Re granchio Balbuziar Trecentoquindicesimo, intervallati da due Shaggå (cioè immaginari testi epici tipici del post-esotismo di Volodine composti da sette sequenze e un commento all’insegna di una “estetica della sfiducia” – con tanto di accenno al Necronomicon immaginato da Howard P. Lovecraft) dedicati alla storia antica di un regno oceanico abitato da pesci semiumani (sirene?): storie di complotti, dinastie e guerre funzionali a ridicolizzare la crudeltà del potere e del totalitarismo. Il pensiero va naturalmente a Le mille e una notte, ma trasfigurate da numerosi sperimentalismi nello stile e nel linguaggio, “fotografato” in una sorta di transizione evolutiva verso nuove ere, nuove certezze ma anche nuove oscurità.