
Budapest, 3 dicembre 1982. La neve fiocca sull’argenteo scorrere del Danubio e lo sferragliare del tram 19 segnala l’indifferente fluire della vita e dei suoi attori. Tre uomini e una donna si incontrano a piazza Batthiany e dopo un rapido scambio di saluti, si dirigono nella pasticceria Angelika. In uno dei separé del caffè, gli uomini vorrebbero fare a gara per aiutare la donna a sfilare il suo cappotto, un pastrano beige old-style, che non ruba la scena né allo sguardo ammaliante della donna, né al suo prospero seno, abbinato a una silhouette morbida e armoniosa. È bella, ostinatamente disinteressata al suo aspetto fisico, benché l’età, ha sessant’anni e il suo nome in codice è “signora Pápai”. In preda a un sentimento di rivalsa, tra un sorso di tè e un pasticcino alla crema, la donna informa i suoi accompagnatori di voler lasciare l’incarico affidatole: dal 1975, la signora Pápai è una collaboratrice segreta del regime comunista ungherese, l’informatrice zelante che, in uno sforzo di patriottismo - ma in assoluta coerenza con le sue posizioni decisamente antisioniste e con la sua genuina fede nella giustizia veicolata dell’ideologia comunista - ha sostituito per il bene del sistema, il collaboratore “signor Pápai”, suo marito, al servizio del regime già dagli anni Cinquanta, ma divenuto progressivamente inaffidabile a causa di una disabilitante malattia mentale. La donna, in verità, decide di continuare ad essere una collaboratrice segreta, ma a distanza di tre anni da quell’incontro alla pasticceria Angelika, la morte pone fine al suo mandato. La signora Pápai, vero nome Avi-Shaul Bruria, sposata Forgach, è una donna signorile ed energica, una madre amorevole e liberale, una moglie premurosa, innamorata della vita e capace di trasmetterne l’energia, un’insospettabile spia, decisa e rassegnata a portare con sé, fin nella tomba, la verità sulla sua doppia vita e sull’attività svolta segretamente, per riuscire a infiltrarsi e a insidiare la “cospirazione sionista”. A distanza di quasi trent’anni dalla morte della “signora Pápai”, una telefonata ha l’effetto di una deflagrazione nella vita di András Forgách, noto drammaturgo ungherese: negli archivi dei servizi segreti, resi accessibili dopo la caduta del regime comunista, è presente un fascicolo a nome di sua madre…
“C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”. Prende le mosse dalle parole dell’Ecclesiaste, citate in esergo, l’intenzione dello scrittore ungherese András Forgách, di dire tutta la verità su sua madre, sulla sua identità di collaboratrice segreta. Un atto di onestà nei confronti dei lettori, seguito a un travaglio interiore, necessario ad accettare le rivelazioni emerse dagli archivi segreti. Ma anche un lungo lavoro di scrittura manuale, per copiare informazioni e rapporti di cui non era possibile venire in possesso altrimenti. Il titolo dell’edizione italiana non riprende il titolo originale (Élő kötet nem marad - No live files remain), che fa riferimento alla dicitura riportata sui fascicoli chiusi dai servizi segreti, ma gioca sul doppio significato del termine atti. “Un bel giorno viene fuori che hanno reclutato tua madre”, la notizia è come una rivoluzione copernicana, un cambio di paradigma, “in grado di cambiare le leggi della prospettiva e della gravitazione”, sospende il tempo tra un felice prima e un drammatico dopo e ogni istante vissuto insieme, le foto, i ricordi, le storielle della buona notte, i giochi, i miti e i riti familiari, tutto diventa sospetto, velato di vergogna e di tradimento. Forgách sceglie di riportare per intero i fatti registrati nei rapporti minuziosi dei servizi segreti. Puntella così, con le evidenze documentali, la finzione narrativa. Ed è con le note del romanzo che riesce a comporre, seppur in modo frastagliato, la trama della doppia vita di Bruria, sua madre, alla quale dedica infine, versi poetici intrisi di rabbia, di empatia, di riconoscente amore filiale. La pubblicazione del libro avrebbe potuto essere un passo falso per il suo stimato autore, colpito dall’infamia di essere figlio di due collaboratori segreti del regime di Kádár, in un Paese in cui, a distanza di anni dalla fine dell’era comunista, non è ancora possibile aprire un dibattito pubblico e aperto sulla storia passata, sui sistemi di controllo adottati dal regime, sul reclutamento dei servizi segreti. Il romanzo, invece, è stato accolto in modo entusiastico dai lettori ungheresi, segno che i tempi sono ormai maturi per rileggere la storia e per prevenirne i suoi ricorsi, come l’attuale sistema autoritario di Orban fa temere.
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