
Borgo Alamo, 1997. Lungo la riva del fosso, come spesso ama fare, Pietro anche quel giorno è intento a sistemare i pesci appena pescati nel cestino di vimini ed è pronto ad inforcare la sua bicicletta per far ritorno a casa. Non ama particolarmente la gente Pietro, gli piace pescare da solo. Gli piace stare da solo. Per questo e per le sue origini contadine in paese spesso è vittima di prese in giro. Il silenzio del ruscello, interrotto solo saltuariamente dal convoglio che va da Vercelli a Casale, la sua unica compagnia. Inforcata la vecchia Dei di suo nonno prende a pedalare con la solita andatura finché dal silenzio non sente provenire una strana musica. Incuriosito si arresta di colpo e tendendo l’orecchio scopre che quel suono parte da un boschetto di betulle davanti a lui. Si apposta cercando di non far rumore e sul ciglio della strada vede una A112 con gli sportelli aperti. La canzone che sentiva proviene dall’autoradio dell’auto ed ora sembra sul punto di sfumare per far posto ad un’altra. Il ragazzo la conosce quella macchina: è di Tommaso Pastore detto il Bue per via delle sue fattezze, l’intoccabile figlio dell’intoccabile sindaco di Borgo Alamo, nonché proprietario della PasFer, una fabbrichetta che sfama mezzo borgo. Sente l’adrenalina andargli in circolo e qualcosa gli dice che dovrebbe andarsene di corsa ma la curiosità lo spinge ad addentrarsi fra le frasche da dove sembra provenire un gemito. Si acquatta un po' e cerca di sbirciare in silenzio. C’è proprio il Bue lì, la pancia flaccida, la testa colma di capelli ricci rossi reclinata all’indietro e soprattutto i pantaloni calati fino alle caviglie. Inginocchiato davanti a lui, le dita tozze del figlio del sindaco a cingergli la testa, c’è Lamas – sì, come l’attore televisivo –, un perditempo che passa le giornate al bar in cerca di qualche lavoretto o marchetta. A Pietro scapperebbe quasi un sorriso se non fosse che inavvertitamente calpesta un ramo attirando l’attenzione dei due. Il ragazzo prova a fuggire, il cuore a martellargli nelle orecchie ma i due gli partono immediatamente alle spalle finendo per raggiungerlo in un batter d’occhio…
Opera prima col botto per il torinese di nascita ma milanese d’adozione Marco Avonto. Teatro di questo tesissimo noir è un piccolo, anonimo e sonnolento borgo piemontese come ce ne potrebbero essere tanti, dentro cui si agitano tutta una serie di personaggi disperati, misfit ai margini della società se non dell’esistenza stessa le cui miserie esistenziali vengono un giorno scosse da un improvviso fatto di sangue. La morte di un solitario ragazzo che si scoprirà aver assistito a ciò che non avrebbe dovuto vedere, un rapporto omosessuale tra il temuto e impunito figlio del sindaco ed un perdigiorno della zona. L’evento diverrà concausa e pretesto per l’incrocio di vicende e personaggi che si alternano fra vari piani temporali fino all’inatteso finale. Non c’è redenzione per nessuno nel mondo disperato messo in scena da Avonto, non ci sono vincitori, non c’è riscatto o possibilità di salvezza alcuna. C’è malinconica rassegnazione - anche lì dove un germoglio d’amore sembra spuntare -, c’è una pacata disperazione che tutto pervade e ammanta e solo alla fine sembra accendere una minuscola fiammella sul futuro di queste vite disperate… ma il prezzo sarà altissimo. Avonto non fa sconti e tira fuori da sotto il tappeto della provincia la peggior (mala) vita possibile mettendo in scena stilisticamente tutto il suo repertorio di appassionato americanista. Una splendida e piacevolissima scoperta. Una bellissima voce che speriamo presto di poter risentire.