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Gli scomparsi

Gli scomparsi

11 novembre 1918. Quando, tra due ali di rimorchiatori, la “Alex Denkman”, proveniente dagli Stati Uniti, attracca col suo carico di soldati al molo francese di Saint-Nazaire, sulla banchina si è formata una folla in visibilio. Le mani, però, sono sollevate non alla volta della nave a vapore, ma del colonnello che, salito su un podio improvvisato di casse di munizioni, annuncia alla folla festante la firma dell’armistizio. Scampato pericolo, archiviato il quale viene da chiedersi cosa sarebbe rimasto di quella guerra sanguinosa e logorante, dove gli uomini hanno dato il peggio di sé. Forse solo le sue storie: quelle sono dure a morire. È in questa atmosfera sospesa che Sam Simoneaux poggia i piedi sul suolo insanguinato europeo. Proviene da New Orleans, dove a sedici anni si è trasferito dalla Louisiana. Patria del jazz, terra di sogni e speranze in formato famiglia, che la musicalità la porta inscritta nel nome. La passione per il pianoforte messa da parte nel volgere luttuoso degli eventi. La missione che è venuto a compiere non può certo dirsi conclusa: c’è tutta la ricostruzione davanti, la fase più lunga e insidiosa, nella quale riprecipitare nella guerra è uno scenario da tenere sempre presente. Assegnato al dispensario di narcotici presso un ospedale di Parigi, Sam viene a contatto con tutta la brutalità della guerra, nelle urla strazianti di occhi, di mani, di arti amputati. Senza filtri. Quando viene trasferito al gruppo incaricato della campagna di bonifica e sminamento dalle granate inesplose, gli sembra di potere finalmente tirare il fiato. Si sbaglia di grosso: presto si renderà conto di quanto l’eco della guerra sia ancora vivo, confitto nella terra come un dolore segreto. Lo stesso dolore provato per la morte del piccolo Oscar, strappato via a due anni da una febbre di cui Sam ignora il nome, e che si rinnova nello strazio dei soccorsi prestati alla piccola Amélie, curata e abbandonata al suo destino, alla vista di quel fiore destinato ad appassire nel mesto scenario del dopoguerra. Ha questo vizio, il dolore, di non passare. Di ripagare, singolare moneta, col rendere immortali gli affetti nello stesso istante in cui ci vengono strappati, stretti nell’abbraccio del ricordo, la loro “assenza più palpabile della presenza”...

Un vagabondaggio nel ventre molle di un’America polverosa e sonnolenta, lontana dai riflettori, insudiciata dalla volontà claudicante di uomini e donne senza scrupoli, piegata sotto il peso delle fatiche che spezzano la schiena di uomini e donne senza diritti. Una società inconsapevolmente avviata verso il sentiero egolatrico del benessere prima di tutto, disposta a svendere la propria coerenza per aprirsi alle lusinghe di un lusso finalmente alla portata degli ultimi. Nella quale, come baluardo nella notte, sopravvive la luce tremula di uomini e donne onesti, contrari a voltare la faccia dall’altra parte, convinti che la felicità sia materia di scambio e non oggetto di bramosa accumulazione. Un viaggio alle radici dell’altra faccia del libero arbitrio, di quella zona d’ombra che vorremmo rimuovere e con cui fatichiamo a fare i conti, acquattata al fondo dell’indolenza per la quale scopo di ogni viaggio diventa non lo “andare da qualche parte, ma darne l’impressione”. Della codardia mascherata da tracotanza, con la quale i prepotenti credono di poter disporre della vita degli indifesi. Di quella passata così come della futura. La prassi inveterata, gratuita, di soprusi e angherie scambiati per innocente sollazzo, fino a non fare più rumore, fino a divenire giustificabili, alla stregua di un vezzo identitario. Nelle fauci della quale albergano le mille declinazioni dell’egoismo umano. Una indagine sul cerchio nero del male, su come sia impossibile cancellare le conseguenze delle nostre azioni, delle nostre scelte. Sulla virulenta banalità delle tragedie figlie della stupidità, della cupidigia, della cattiveria. Sul legame sottile che esiste tra scelte e azioni, nel quale si decide non solo della nostra coerenza, ma anche della nostra capacità di farci prossimi alla sofferenza altrui. Una prosa cruda, brutale, chirurgica, attenta a riprodurre la scia di sgomento che l’eclissi di senso lascia dietro di sé e negli occhi degli uomini, all’indomani di ogni conflitto. Ma, anche, una riflessione militante sul potenziale trasformativo della perdita, sulla sofferenza che lascia, sul riscatto che invoca. Sulla potenza eternatrice della memoria, capace di rigenerare ciò che è stato soppresso, calpestato, deriso, di renderlo per assurdo più reale di prima. La memoria come unica, implacabile arma nelle mani dei vinti che non si rassegnino a rimanere tali: da maneggiare con cura, perché la furia cieca di vendetta non abbia a prevalere, mescolando vittime e carnefici fino ad ammorbarli con lo stesso tanfo, fino a renderli indistinguibili. Una ricognizione puntuale dell’intercapedine decisiva tra responsabilità e ignominia, condotta con l’inesorabilità di un fiume crocevia di merci, persone, comunità, sogni, destini. Dove c’è spazio per la luce del numinoso: perché non serve altra vendetta contro chi sconta, col fatto stesso di vivere, ogni giorno il prezzo di ciò che è diventato. Un romanzo che, seppur farraginoso nell’impianto narrativo e forzato in alcuni passaggi, ha il coraggio di farsi riflessione sul tema della colpa, dell’espiazione, del riscatto, degli orizzonti di rinascita che questo dischiude. Su quanto sia facile cedere alla tentazione attualissima di chi, giorno per giorno, sceglie di lasciarsi scorrere la vita addosso, di vivacchiare in un eterno presente immune da responsabilità, attento solo ad assecondare le bizze dell’appetito di turno. Su quanta fatica costi rimanere integri ed equanimi in un mondo marcescente e corrotto, fedeli al proprio credo, alla propria storia, alla propria strada. Nella granitica convinzione che questo basti. Contro ogni evidenza.