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Gli scrittori scrivono troppo?

Gli scrittori scrivono troppo?

Sono i primi del Novecento, il pubblicare romanzi a puntate su riviste e quotidiani è ormai una prassi consolidata che garantisce gli editori da investimenti a rischio di insuccesso. Ed è qui che Jerome K. Jerome racconta d’essersi imbattuto, da lettore, in una pubblicazione giunta già alla settima puntata. Grazie a Dio però c’è la sinossi dei capitoli precedenti che gli consentirà di entrare con agio nel romanzo. Ma è proprio leggendo la sinossi che perde la voglia di proseguire col capitolo appena pubblicato sul numero da lui acquistato: meglio attendere il prossimo numero e lasciare al redattore la fatica di leggerlo e poi riassumerlo. “Ma se lo legga lei, signor redattore, perché dovrei farmi strada in questo settimo capitolo di tre colonne e mezza? È il suo lavoro. Per cosa viene pagato?”. Da scrittore invece, la riflessione è un’altra: se egli stesso ha preferito che a raccontargli una storia sia un redattore pagato per riassumerla, chi gli dice che un bel giorno non sbuchi un editore dalla vena imprenditoriale che si chieda “Che senso ha pagare uno per scrivere una storia di sessantamila parole e un altro per leggerla e raccontarla di nuovo in milleseicento?”. A quel punto agli scrittori converrà scrivere direttamente romanzi in capitoli non più lunghi di venti parole. Si vorrà narrare una tragedia infantile? “Ragazzino. Un paio di pattini. Ghiaccio rotto. Porte del Paradiso”. E chi comprerà mai un libro di tre pagine? Questa cosa lo preoccupa molto…

Spiace molto dirlo nei confronti di un’edizione così ben tradotta e curata, con note esaustive a piè di pagina, e spiace dirlo da fan di Klapka Jerome: c’è stata una forzatura nel titolo. JKJ non ha mai pubblicato un libro intitolato Gli scrittori scrivono troppo?. Quanto sopra riassunto (da redattore pagato per riassumere, si capisce), costituisce solo un breve capitoletto inserito in Idee oziose nel 1905, seguito ideale de Gli oziosi pensieri di un ozioso pubblicato nel 1886. In entrambi i casi si tratta di saggetti umoristici di costume che affrontano gli argomenti più svariati: le convenzioni sociali, la musica, l’ipocrisia, la percezione di noi stessi… Nella miscellanea precedente si parlava della seccatura delle bollette, di bambini, di animali, del mangiare… quindi sarò chiaro: chi si aspetta di trovare in questa pubblicazione un caustico saggio di letteratura resterà fuorviato. Però, però… Però per quanto talvolta (non sempre) il tempo destituisca di senso l’umorismo che bersaglia costumi e riferimenti a personaggi contemporanei allo scrittore ma ormai passati e culturalmente lontani (chi di noi potrà comprendere a fondo la messa alla berlina della tirannia delle convenzioni vittoriane?), restano due pregi che travalicano tutto il resto. Il primo è il valore storico che, proprio per quanto detto – ed aiutati dalle eccellenti note a piè di pagina –, ci spinge ad approfondire ed immergerci nel contesto nel quale i “pensieri oziosi” vengono partoriti; il secondo è il valore innegabile della scrittura dell’autore sempre ed inevitabilmente guidata da riflessioni anticonvenzionali e sempre destinata a spingere il lettore all’osservazione degli aspetti che vanno buffamente a dissacrare meccanismi sociali e comportamenti individuali. Lo stesso Tre uomini in barca era nato con l’intento di essere una guida turistica seria per le gite sul Tamigi ma, a furia di irrinunciabili digressioni facete, è diventato quello che è diventato.