
Un giorno d’estate, circa a metà luglio di un anno imprecisato, Italo Filippin, Gianni Gallo e Mauro Corona partono da Erto verso gli Spalti cadorini con l’intenzione di scalare il Campanile Toro. Questo monte non è bello come il Campanile di Val Montanaia ma, per il gruppo di ertani è un luogo misterioso e invitante. Al mattino presto, a casa di Italo, i tre decidono l’attrezzatura con cui partire. Non serve molto materiale giacché i tre amici hanno deciso di scalare la montagna per la via più facile. Italo infila nello zaino corda, chiodi, martello, qualche maglione e sei lattine di birra. Lo chiude e va di sopra a preparare il caffè. Mauro, che ha seguito la scena, pensa di sottrargli le birre e fargli uno scherzo. Apre quindi lo zaino dell’amico, toglie le lattine e velocemente le trasferisce nel suo. Poi, affinché l’amico non s’accorga del peso mancante, gli infila nel sacco una grossa forma di ghisa a tre piedi, di quelle usate dai calzolai per ribattere i chiodi nelle suole delle scarpe. Richiude lo zaino e lo rimette al suo posto. Qualche minuto dopo i tre salgono in casa a bere il caffè. Lungo il percorso Gianni e Mauro bevono qualche birra tra le lattine sottratte a Italo. Italo che non immagino lo scherzo candidamente afferma: “Ho anch’io delle birre nello zaino ma voglio tenerle per la vetta”. I compagni sornioni gli fanno bere qualche sorso anche a lui affinché non gli venga la tentazione di rovistare nel suo zaino. Arrivati alla base del Campanile Toro sotto la splendida roccia a dente di cane, i tre scolano le ultime lattine. Lasciano che beva pure Italo, di nuovo affinché non apra lo zaino prima della cima. Arrivati in vetta, dopo le classiche strette di mano, le firme sul libro e la contemplazione del paesaggio di sotto, Italo si siede e si appresta ad aprire lo zaino per ricambiare le gentilezze degli amici. In quell’istante Gianni e Mauro si guardano e sentono Italo sibilare: “Animali, assassini, farabutti”. I due ridono di gusto mentre Italo resta serissimo…
Nella bella introduzione a questa raccolta di racconti pubblicata da Mauro Corona per la prima volta nel 2001, l’autore assimila i ricordi della vita alle gocce di resina che colano dagli alberi. Come queste ultime restano incollate al tronco per tenergli compagnia, per aiutarlo a resistere e a crescere i ricordi, aiutano l’uomo a guarire dalle ferite della vita. E difatti gli uomini descritti in questa raccolta ed in tanti altri scritti di Corona sono tutti eroici nello sforzo di guadagnarsi la vita, impavidi dinanzi al pericolo, ironici ed ingenui nell’affrontare le magagne della burocrazia e della quotidianità. Sono bracconieri, cacciatori, contadini, gran bevitori, spiantati e secondo la penna dell’autore che chiaramente tratteggia un mondo scomparso, sono soprattutto sognatori: fragili individui che vivono circondati da una natura aspra e violenta. A far da cornice alle storie il paesaggio delle Dolomiti friulane così caro all’autore al punto da essere rappresentato in tutte le sue opere e il borgo di Erto con gli accenni ad un prima e ad un dopo legati alla tragedia del Vajont. In effetti le narrazioni di Mauro Corona rappresentano l’energico ed estremo tentativo di preservare e tramandare per mezzo della letteratura l’identità severa e schietta della gente di Erto e dei borghi vicini nella dimensione che aveva prima del disastro del 9 ottobre 1963.