Salta al contenuto principale

Grand Hotel Scalfari

Grand Hotel Scalfari

Con pacata saggezza Eugenio Scalfari vive in quella stagione densa di anni che è la vecchiaia, nella consapevole condizione di chi la ritiene un normale stato di natura. Non solo, ma anche la conquista della fase più matura della vita che finalmente consente di vivere il presente con pregnante intensità. Da questo confine egli guarda al paesaggio del proprio passato e ne condivide in dialogo con gli intervistatori, senza alcuna forma di reticenza, ogni aspetto, anche quelli più intimi e personali. Come quando confessa di aver a lungo mantenuto una doppia relazione sentimentale, sia con la moglie Simonetta De Benedetti sia con Serena Rossetti che diverrà in seguito la sua seconda coniuge. O quando ricorda la crisi famigliare dei due genitori, dell’educazione cattolica ricevuta in età adolescenziale, confessa la giovanile adesione al fascismo prima dell’approdo all’antifascismo, racconta delle malattie affrontate e delle avventurose rapsodie libertine. Con affabile nostalgia ci illustra una galleria di ritratti di amici e colleghi, politici e imprenditori che con lui hanno attraversato ormai quasi un secolo di storia economica, politica e culturale: da Italo Calvino – che gli fu compagno di banco al liceo – ad Arrigo Benedetti, da Adriano Olivetti a Carlo De Benedetti, da Mario Pannunzio a Leo Longanesi, da Indro Montanelli a Bernardo Valli. Ma le pagine più inebrianti sono quelle dedicate al giornalismo nell’era della carta stampata, quelle in cui racconta l’avventura del quotidiano “La Repubblica” da lui fondato e a lungo diretto. La forza indomabile della passione con cui dà conto di come sia salpato a bordo e abbia condotto la navigazione di quella piccola nave corsara che nel 1976 contava una redazione di sessantacinque persone e riempiva trentadue pagine...

Un borghese illuminato e liberaldemocratico, che si è sempre vantato di essere tale, riservandosi i tratti elettivi della radicalità in un Paese in cui al contrario è prosperata una borghesia torbidamente conservatrice. Quello di Eugenio Scalfari è un caso più unico che raro. Dunque niente deve rimanere perduto. Ogni minimo particolare della sua vicenda umana e professionale, i pensieri e i sentimenti, le imprese e le parole, le relazioni politiche e quelle mondane. Tutto deve essere raccontato e tramandato alla futura memoria. È questo lo spirito che guida due dei giornalisti a lui più vicini a interrogarlo e a lasciare che egli racconti e si racconti in un libro scritto a sei mani, alquanto denso di storie e personaggi che hanno attraversato le tappe della vita del decano dei giornalisti italiani, dalla formazione a un mestiere che è divenuto passione di una vita. Un libro necessario e che mancava. Che ci racconta non solo la biografia di Scalfari in ogni suo aspetto, ma di un modo di fare giornalismo che non si limitava più a dare conto delle notizie, ma che entrava esso stesso nelle vicende, facendo della riflessione e dei giudizi una leva fondamentale per l’educazione all’esercizio critico dell’interpretazione dei fatti. È una forza vitale, elementare ed inalienabile a dare consistenza all’impegno della sua professione giornalistica all’insegna dell’indipendenza ma insieme anche della volontà di interpretare un ruolo attivo. Ne viene fuori un ritratto che riesce a mettere il dito là dove il cuore dell’uomo di volta in volta batte, dove gioisce e inevitabilmente duole, riuscendo a portare in luce l’identità di un uomo capace di levare trucco e belletto a un mestiere e a un Paese in cui ognuno di noi riconoscerà vizi e virtù che ci sono appartenute.