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Gulliver di Marte

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New York, fine Ottocento (forse inizio Novecento). Gulliver Jones, tenente della Marina degli Stati Uniti d’America dalla carriera piuttosto mediocre, si aggira sconsolato per le vie poco illuminate della Grande Mela. Si trova in licenza per coronare il fidanzamento con Polly, la ragazza dei suoi sogni, ma gli è stata appena rifiutata una promozione e il conseguente aumento di stipendio. Dovrà presentarsi alla porta della sua ragazza senza nulla di concreto da offrire, a parte le consuete promesse e le belle speranze. Ma è proprio lì e in quell’istante che la sua vita cambia bruscamente. Uno sbattito d’ali, uno sbuffo d’aria nel buio del vicolo e il corpo del vecchio che si accascia privo di vita fra il marciapiedi e la strada. Che ci fa un vecchio dall’aspetto così strano lì? Da dove viene, perché si porta dietro un tappeto di foggia orientale che sembra raffigurare il sistema solare? Perplesso, Gulliver porta il vecchio all’ospedale, ma è troppo tardi per salvargli la vita. Il giovane si ritrova, così, involontario erede di un monile di foggia inusuale e di un tappeto di buona fattura ma ormai semi consumato. Ma tutto ciò è solo l’inizio di una lunga e movimentata avventura su Marte...

Giovane ufficiale insoddisfatto dalla sua stessa vita, l’incontro con un personaggio dall’apparenza aliena, un manufatto dalle capacità straordinarie. Gli ingredienti ci sono gli stessi del più famoso ciclo della Fantascienza di tutti i tempi: quello di John Carter di Marte. No, vi sbagliate di grosso. Arnold non deve proprio nulla alla sfrenata fantasia del mitico Burroughs, casomai è proprio l’opposto. Lieut. Gullivar Jones: His Vacation , titolo originale di questo romanzo, uscì per la prima volta nel 1905, ben sei anni prima del primo romanzo marziano di Burroughs (1911). Non a caso è oggi considerato quasi all’unanimità come la principale fonte di ispirazione del più famoso “collega”. Eppure, il romanzo non ebbe mai un vero successo di pubblico inducendo lo sconsolato Arnold ad abbandonare in via definitiva l’attività di scrittore. Leggendolo oggi, dopo ben due ristampe americane postume (Gulliver of Mars - 1964, Ace Books e Gullivar of Mars - 2003, Bison Books) e perfino una serie di albi a fumetti Marvel nel 1972, possiamo anche ben capire il perché di questo strano destino letterario. Lo stile involuto e l’eccesso di “storytelling” di Arnold, infatti, sembrano lontani anni luce dall’esplosività di Burroughs. L’esperienza del viaggio su Marte appare sfumata e sbiadita, non penetra l’immaginario del lettore. Lo stesso Marte è un paesaggio esotico, un mondo da favola, quasi incantato. Ben povera cosa rispetto al selvaggio Barsoom di Burroughs, straripante di forme di vita ma poco adatto alla sopravvivenza dei meno forti e determinati. Una storia ben articolata, con un protagonista che attira anche simpatia, ma troppo poco vissuta: manca l’odore del sangue e lo scricchiolio delle ossa. Insomma, il confronto con l’illustre successore del tenente Gulliver è purtroppo impietoso. Ci dice, però, quanto sia importante la capacità di tirare il lettore dentro la storia, renderlo tutt’uno con le vicissitudini dei personaggi.