
Estate del 1925. Werner Heisenberg, 23 anni, assistente di Max Born, che insegna Fisica all’università di Göttingen, in Germania, si trova sulla brulla e ventosa isola di Helgoland (in tedesco “terra sacra”) nel Mare del Nord: vi sta trascorrendo qualche giorno per sfuggire ad una fastidiosa allergia e per trovarvi concentrazione. Per qualche mese, su consiglio dell’amico Wolfgang Pauli, si era unito al gruppo di giovani menti che Niels Bohr, ideatore del modello atomico - che nel 1922 gli era valso il Nobel per la fisica-, aveva raccolto all’università di Copenaghen con l’intento di risolvere alcune questioni rimaste aperte: Bohr aveva dimostrato come gli elettroni negli atomi orbitassero attorno al nucleo, e che potessero “saltare” da un’orbita all’altra - liberando nel salto un “grano”, un “quanto” di luce, quello che verrà poi definito fotone - ma non aveva compreso per quale motivo gli elettroni utilizzassero solo determinate orbite, e cosa spingeva gli elettroni ad effettuare salti tanto precisi. Il giovane Heisenberg, ossessionato da quegli interrogativi, in quel luogo di solitudine cerca di pensare fuori dagli schemi. E ad un tratto, sostituendo le variabili delle equazioni della fisica classica con tabelle, “matrici”, in cui nelle righe sono rappresentate le orbite di partenza, nelle colonne le orbite di arrivo, ed ogni possibile salto corrisponde ad una casella, ritrova i risultati di Bohr. Heisenberg rinuncia all’idea di descrivere la traiettoria di un elettrone; riesce a descrivere invece solo ciò che dell’elettrone si può osservare dall’esterno: la luce emessa quando salta da un’orbita all’altra, la sua frequenza, la sua intensità. L’austriaco Erwin Schrödinger, l’anno seguente, avrà un’altra intuizione fondamentale: il comportamento degli elettroni assomiglia a quello delle onde. Dunque gli elettroni non sarebbero particelle che saltano da una parte all’altra, ma fenomeni ondulatori? Sarà Max Born a intuire quella che forse è la chiave di volta della nuova teoria, la meccanica quantistica: sia le matrici di Heisenberg, sia le onde di Schrödinger, non dicono dove sarà l’elettrone, ma esprimono la probabilità che si trovi in dato punto, se sottoposto ad osservazione. Ma come è possibile che la mera osservazione influenzi il comportamento degli elettroni? Come possono gli elettroni “sapere” di essere osservati? Se la miglior descrizione possibile di una particella subatomica, costituente della materia di cui sono fatti gli oggetti e di cui siamo fatti noi stessi, è - come scrisse Schrödinger - “non come una entità permanente bensì come un evento istantaneo”, cosa è davvero quella che osserviamo e definiamo come realtà?
“La teoria dei quanti ha chiarito le basi della chimica, il funzionamento degli atomi, dei solidi, dei plasmi, il colore del cielo, i neuroni del nostro cervello, la dinamica delle stelle, l’origine delle galassie... Mille aspetti del mondo. È alla base delle tecnologie più recenti: dai computer alle centrali nucleari. [...] Non ha mai sbagliato. È il cuore pulsante della scienza odierna. Eppure resta profondamente misteriosa. Sottilmente inquietante. Ha distrutto l’immagine della realtà fatta di particelle che si muovono lungo traiettorie definite, senza chiarire come dobbiamo pensare il mondo”. È affascinante pensare al giovane Heisenberg che aspetta l’alba sulle scogliere a picco sul mare di Helgoland, dopo aver concluso, alle tre di un mattino d’estate, i calcoli che gli hanno rivelato qualcosa che, intuisce, riscrive completamente il criterio di interpretazione della realtà, lo scardina, ne sovverte le regole lineari (“...Avevo la sensazione che attraverso la superficie dei fenomeni stavo guardando verso un interno di strana bellezza...”, avrebbe scritto rievocando quei momenti). Qualcosa che ha lasciato perplessi e pieni di interrogativi persino scienziati del calibro di Albert Einstein, che pure contribuì allo sviluppo della teoria (“Dio non gioca a dadi con l’Universo”, sostenne, a proposito della componente probabilistica della meccanica quantistica) e Richard Feynman (che avrebbe commentato: “nessuno capisce i quanti”). Carlo Rovelli, fisico, filosofo, divulgatore, ordinario di Fisica teorica all’università francese di Aix-Marseille, presso cui lavora nel team dedicato alla “teoria della gravità quantistica a loop” - che mira a rendere la teoria della relatività generale einsteniana coerente con la meccanica quantistica -, sonda gli spazi aperti, le implicazioni di una teoria che si presta a vertiginose voragini speculative, “dalla struttura della realtà fino alla natura dell’esperienza, dalla metafisica fino, forse, alla natura della coscienza”. Oltre ad essere un appassionante saggio scientifico, Helgoland è la condivisione di quella straordinaria sensazione di stupore che coglie chi si ritrova di fronte ad una visione dell’universo “sfrangiata in un gioco di specchi”: una meditata, a tratti poetica riflessione sulla scienza, sull’uomo, sulla ricerca, sulle domande fondamentali e su come la teoria dei quanti sia in grado di riscrivere la grammatica fondamentale con cui interpretiamo quel che chiamiamo realtà, e noi stessi.