
"Parlo soltanto con tipi che hanno il naso a becco come quello di Bob Dylan. Di solito mi trovo bene con loro… come se fossero più sensibili". Le acrobazie sessuali di un reduce del Vietnam senza gambe, uno stupro anale ai danni di un ragazzino recalcitrante, due preti tossicomani che disquisiscono delle dimensioni dei genitali di alcuni loro amanti occasionali, una delirante apologia del boxare nudi, i trucchi per far ricoverare una moglie in manicomio: quarantacinque brevissimi frammenti, ognuno il monologo di una persona incontrata dall’autore nei suoi vagabondaggi negli anni ’70 ed ’80. Ai capolinea degli autobus, sui marciapiedi, nei bar, in alberghi di infima categoria sfila un’umanità varia e dolente...
La breve vita di David Wojnarowicz ha spesso assunto le coloriture del mito moderno: onestà vuole che si ammetta che la sua carriera di pittore, fotografo, performancer, regista e musicista punk si è molto giovata delle sue traversie private. Il fascino maudit di un giovanissimo poeta violentato e abbandonato che si guadagna il pane sui marciapiedi di New York o attraversa gli Usa ed il Messico in autostop o sui treni merci nutrendo la sua sensibilità ed il suo innato talento attraverso l’incontro con persone di tutti i tipi è innegabile, e diventa addirittura condizione necessaria e sufficiente per riuscire a scrivere un libro come Hotel Waterfront. Perché trarre vibrante, emozionante poesia da storie scabrose e crude come quelle di Wojnarowicz è un affare non da poco, ne converrete. Troppo alto il rischio dell’artificiosità, del sensazionalismo esistenziale, dell’esercizio letterario, della furbizia commerciale. Ma l'autore riesce meravigliosamente bene nell’impresa, commuovendoci fino alle lacrime, inoculandoci una irresistibile malinconia, costringendoci a sguardi diversi (ancora più colpevolmente sfuggenti, credo, ma dolorosamente consapevoli) nei confronti di tutti gli sbandati, gli sconfitti, delle figure che vivono ai margini, negli angoli bui nei quali ogni tanto facciamo una capatina a vario titolo per sconfiggere la noia ed affrontare il mal di vivere (se con l’intento di dimenticarcelo o rammentarcelo è tutto da stabilire). Dolore, non scandalo. Tristezza, povertà e verità. Ecco in cosa risiede la forza narrativa di Wojnarowicz, ma attenzione: non siamo di fronte al ‘solito’ reportage dagli inferi in prima persona singolare, ed è proprio questo che rende Hotel Waterfront un libro splendido. Quanta forza, quanto amore, quanta America operaia, contadina, proletaria c’è in questi fulminanti monologhi, che tutti insieme compongono una lunghissima, dolente ballata folk, una via crucis che di stazione di autobus in Brew & Burger, di caffè newyorchese in camera dello YMCA, di cespuglio lungo l’Hudson in camera d’albergo racconta l’epica di un popolo di ‘misfits’ che una volta letta non si dimentica.
La breve vita di David Wojnarowicz ha spesso assunto le coloriture del mito moderno: onestà vuole che si ammetta che la sua carriera di pittore, fotografo, performancer, regista e musicista punk si è molto giovata delle sue traversie private. Il fascino maudit di un giovanissimo poeta violentato e abbandonato che si guadagna il pane sui marciapiedi di New York o attraversa gli Usa ed il Messico in autostop o sui treni merci nutrendo la sua sensibilità ed il suo innato talento attraverso l’incontro con persone di tutti i tipi è innegabile, e diventa addirittura condizione necessaria e sufficiente per riuscire a scrivere un libro come Hotel Waterfront. Perché trarre vibrante, emozionante poesia da storie scabrose e crude come quelle di Wojnarowicz è un affare non da poco, ne converrete. Troppo alto il rischio dell’artificiosità, del sensazionalismo esistenziale, dell’esercizio letterario, della furbizia commerciale. Ma l'autore riesce meravigliosamente bene nell’impresa, commuovendoci fino alle lacrime, inoculandoci una irresistibile malinconia, costringendoci a sguardi diversi (ancora più colpevolmente sfuggenti, credo, ma dolorosamente consapevoli) nei confronti di tutti gli sbandati, gli sconfitti, delle figure che vivono ai margini, negli angoli bui nei quali ogni tanto facciamo una capatina a vario titolo per sconfiggere la noia ed affrontare il mal di vivere (se con l’intento di dimenticarcelo o rammentarcelo è tutto da stabilire). Dolore, non scandalo. Tristezza, povertà e verità. Ecco in cosa risiede la forza narrativa di Wojnarowicz, ma attenzione: non siamo di fronte al ‘solito’ reportage dagli inferi in prima persona singolare, ed è proprio questo che rende Hotel Waterfront un libro splendido. Quanta forza, quanto amore, quanta America operaia, contadina, proletaria c’è in questi fulminanti monologhi, che tutti insieme compongono una lunghissima, dolente ballata folk, una via crucis che di stazione di autobus in Brew & Burger, di caffè newyorchese in camera dello YMCA, di cespuglio lungo l’Hudson in camera d’albergo racconta l’epica di un popolo di ‘misfits’ che una volta letta non si dimentica.