
Andare in metro, nell’abisso buio e affollato della Capitale, e scoprire che anche Obelix è lì, tutto intento a trasportare un menhir, un megalite, per la sua amata Falbalà. Nel viaggio dalla fermata Colosseo a Piramide, sulla linea B, un drago vampeggia dall’avambraccio fin sulle dita di Tosca, che seduta vicino al suo strumento a corda, sfoggia il suo fiero animale. Ma è delebile come l’henné, perché sul corpo nulla sia definitivo, “a eccezione dei baci”. Con la bella stagione, pendolari, maschi, adulti entrano nella stazione Flaminio come vagabondi affaticati, che sciamano insofferenti e accaldati insieme alle loro borse. La marea umana allaga i tornelli divenuti spiagge e onde, i pantaloni diventano costumi e le donne legano i loro capelli alla maniera delle bellezze al bagno. La metropolitana è una nave da crociera, sul cui ponte si affacciano scolaresche di seminaristi e comitive di segretarie, salutati da pendolari smarriti sulla banchina. Alla fermata, i passeggeri scendono e al loro posto, restano i sogni della notte, quelli che ancora non sono stati fagocitati dal buio. E poi, ci sono le scale, le famose scale mobili della metropolitana di Roma, che somigliano ai denti appuntiti di un pettine. E i viaggiatori si avventurano, come pidocchi destinati a rimanere intrappolati dal pettine…
Che sia in metro o in treno, non c’è limite alla costruzione e de-costruzione creativa della realtà, del mondo intorno, che gira ogni giorno e che, in ogni istante, offre al sapiente osservatore-viaggiatore uno spettacolo esclusivo. Basta soltanto gettare lo sguardo più in là, per superare i confini del già visto, del già conosciuto. Nel suo libro di racconti brevi, Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore, trasforma il banale routinario viaggio sui mezzi pubblici capitolini, ma non solo, in scoperta dell’invisibile che avvolge ogni umana presenza e come un cantastorie d’altri tempi, parla di divinità antiche e di draghi, mito e realtà si confondono, l’una prendendo la forma dell’altro. L’umanità viene vista attraverso la lente dell’immaginale, per ritrovare la dimensione dell’eternità. “Si tratta di cunto”, sostiene Buttafuoco ed è questo il senso del libro. Buttafuoco ammicca alla tradizione teatrale siciliana dell’Opera dei pupi, in cui il “cuntastorie” non canta, ma usando la voce in modo peculiare, battendo il piede, e percuotendo con una spada, racconta e combina elementi reali e fantastici della narrazione epica. Il “cunto” di Buttafuoco rastrella e ruba le vite degli altri e ne fa un racconto, per riconoscersi e gustare il piacere di osservarsi gli uni gli altri. Anche nei non luoghi e nella precaria traccia esistenziale vissuta durante un viaggio in treno o nella metropolitana, di Roma come di qualsiasi altro posto nel mondo.