
Il cadavere della contessa Maria Ludovica Romano della Gherardesca viene trovato in un lago di sangue nel magazzino in fondo al sottoscala dell’atelier di via Margutta, in occasione di un vernissage del pittore Boezio de Martin cui stanno partecipando tutti i personaggi che contano nella Roma di oggi. Ma chi poteva voler uccidere la contessa e, soprattutto, come è stato possibile farlo in un locale pieno di gente senza che nessuno se ne accorgesse? Questa è la domanda che tormenta il principe Gian Maria Ildebrando del Monte di Tarquinia, appartenente ad una nobile famiglia, risalente al XIII secolo, carissimo amico della contessa e uno degli ultimi ad averla vista quella sera. Di fronte alla Procura di Roma e al titolare delle indagini, il procuratore capo Piero Cochi, che sembrano arenarsi sul caso e accontentarsi di liquidarlo come omicidio passionale, Gian Maria non si rassegna e, aiutato dalla sua acuta moglie e dal suo fido maggiordomo, nonché da tutti i suoi contatti e dalla sua disponibilità economica, si mette sulle tracce dell’assassino. Proprio quando la sua ricerca pare volgersi ad un punto morto e la vita ritornare alla solita mondanità, si presenta un personaggio misterioso che vanta di avere preziosi indizi sul cold case…
Giancarlo Capaldo, responsabile della Direzione distrettuale antimafia di Roma e del pool antiterrorismo, ora magistrato in pensione, dopo la scrittura di numerosi saggi, dove ha condiviso la sua decennale esperienza, derivante da importanti indagini, quali l’eversione nera, il sequestro di Emanuela Orlandi, la banda della Magliana e gli scandali della P3, trasfonde la sua grande passione per la scrittura nel suo primo romanzo. La sua attenzione sembra essere rivolta da un lato a mantenere alta la suspense del lettore avvolgendo la vicenda in intrighi amorosi e politici, dall’altro a denunciare una giustizia disfunzionale, fatta di colori politici e ideologici, che non si mette al servizio dei cittadini, ma è usata per coprire inefficienze, furbizie e vanità. Sul primo aspetto, sebbene la vicenda sia narrata con la giusta dose di particolari, in uno stile poco descrittivo e più incline ai dialoghi, secondo un ritmo incalzante dettato dai numerosi colpi di scena, nel complesso la storia non convince molto, in quanto le condotte dei personaggi o i collegamenti operati per tenere insieme la struttura narrativa risultano forzati e a tratti non credibili. Sicuramente, non contribuisce all’attendibilità la scelta combinata di rendere protagonista un principe dell’alta borghesia romana che, seppur tormentato e filosofeggiante come uno Sherlock Holmes moderno (come si evince dai dialoghi con l’Anonimo sui concetti di verità e giustizia), a causa di questo ostentato stile di vita smodatamente ricco finisce per risultare una caricatura di Bruce Wayne, come suggerisce anche il rapporto con il maggiordomo. E così alla fine viene tratteggiato non tanto un uomo alla ricerca della verità sulla morte oscura di una sua cara amica, ma un nobile annoiato dai salotti di Roma che tenta di soddisfare la propria vanità, come tra l’altro ogni tanto lo stesso scrittore riconosce. Tuttavia, come emerge sia dalle riflessioni di Gian Maria sia dai dialoghi di questo con gli altri personaggi, forse la storia narrata è un pretesto per trattare temi più cari a Capaldo, quali il senso della giustizia e il suo intreccio con la verità. Fin dalla morte prematura del padre, Gian Maria ha il meraviglioso pregio di interrogarsi sulle circostanze della vita non per un fine astrattamente filosofico, ma per trovare una verità che disegni un modo in cui riesce a vivere in pace. Ne consegue che è proprio questo atteggiamento che lo rende apprezzabilmente umano e vicino al lettore. Difatti, nonostante prima facie possa emergere una visione cinica di una “giustizia condanna a inseguire sempre affannosamente la vita” in un contesto in cui lo Stato si dimostra disinteressato e le istituzioni sempre più corrotte dall’interno, in realtà la risposta che Capaldo sembra suggerire, unitamente alla palese necessità di una riforma, è la condivisibile e assoluta convinzione che comunque la giustizia è unica e non esistono varie versioni; perciò, se ce ne allontaniamo per porci in una prospettiva diversa e non la scorgiamo più, “non significa che non c’è significa solo che non siamo nel posto giusto”.