
Il suo acero è ancora lì, Isabell riesce ad immaginarlo chiaramente dietro i ponteggi che circondano il condominio. Le sembra quasi di poter vedere foglie che cadono, rosse e gialle, annunciando l’arrivo dell’inverno. Ha sempre potuto seguire da quella finestra il mutare delle stagioni, i piccoli cambiamenti del quartiere in cui è cresciuta. Tiene in mano un foglietto di carta, lo divide in due. Su ciascuna metà scrive: “Le mie mani non tremeranno”. Le infila nelle tasche posteriori dei jeans attillati, “una per la mano destra, è importante, una per la sinistra, per sicurezza”. Raggiunge in cucina Georg, che dà da mangiare a Matti pezzetti di mela e di toast al burro. Si siede accanto a loro, insieme trasformano la pappa in un gioco, “due adulti strani che fanno teatro e sono contenti che il loro figlioletto mangi a sazietà come fosse un dono fantastico”. Isabell si serve latte e miele. Vuole evitare la caffeina, farebbe tremare ancor di più le sue mani sull’archetto del violoncello. Vuole rimanere concentrata. È stanca per via dei nuovi ritmi, delle nottate in bianco con Matti. Ha nostalgia del periodo della gravidanza. Allora suonava la sua musica solo per il figlio, ancora nella pancia. Si mette in spalla la custodia del violoncello mentre Georg le augura buona serata. Raggiunge l’orchestra, quindici persone vestite di nero disposte in una fossa nera, invisibile al pubblico. È la terza sera di musical, si convince che “non accadrà di nuovo”. Deve solo pensare alle mani e non sbagliare. Aspetta l’attacco del suo assolo. Deve mantenere il controllo, tenere l’archetto morbido, non accelerare, solo suonare…
Una giovane coppia borghese con un buon lavoro, un figlio piccolo, una bella casa. I protagonisti del delicato ritratto che Kristine Bilkau ci offre ne I felici potrebbero essere davvero chiunque, un comunissimo ménage familiare come tanti. Ma i suoi “felici” non sono davvero tali, non del tutto. La strada per la felicità per loro appare accidentata, quasi impossibile, così come per tutta la generazione cui appartengono, impantanata in un perenne ciclo di situazioni “a tempo”. Come una bomba a orologeria, un delicatissimo meccanismo da maneggiare con cura che può scoppiare da un momento all’altro e far crollare tutto, il ticchettio del tempo che passa inesorabile scandisce le giornate inquiete e sempre uguali di Georg e Isabell, entrambi in attesa di un lavoro, di certezze che forse non arriveranno mai, tra i silenzi tesi delle cose non dette, del senso di colpa, del biasimo che avvelena il loro rapporto. Georg, giovanissimo padre di famiglia, è la sfiducia, la disperata volontà di trovare una via d'uscita a qualunque prezzo, di riuscire ad affrontare le responsabilità. Senza sentirsi costantemente un fallimento, uno che arriva sempre troppo tardi, “con una insoddisfazione nel profondo e la sensazione di aver sbagliato tutto”. Accanto a lui, le insicurezze di Isabell, i suoi rifiuti quasi infantili dei piccoli sacrifici, l’ansia che blocca, inibisce, impedisce di reagire. È perdita del controllo, l’insostenibile peso del sentirsi “una donna vecchia nel corpo di una giovane madre”. Le loro voci si alternano, tra angoscia per il futuro e brevi momenti di effimera serenità. Il figlio Matti è il collante che li tiene uniti, forse unico, possibile fulcro di una vera felicità. Come si fa a non arrendersi, dunque, come trovare un punto d’equilibrio? La Bilkau prova a suggerirlo attraverso un imperdibile esordio, tenero, agrodolce, doloroso - soprattutto per chi estraneo non è alle dinamiche raccontate - e affronta con disarmante semplicità ed empatia quel senso impalpabile, realissimo di sbandamento, di asfissiante instabilità che avvolge un’intera generazione, incamminata alla cieca verso il proprio futuro, senza poterlo mai prevedere, senza soluzioni facili. Con la sola speranza di arrivare, un giorno, a dirsi felici.