
Raymond Taylor apre la porta e accende la luce, lasciando entrare i due ospiti nordici: il vecchio amico Sam e il nuovo appena conosciuto. Stephen Jorgenson si guarda attorno e mostra di apprezzare l’ambiente. Esclama due parole: “Bel posticino!”. E per Raymond è l’occasione per attaccare benevolmente Sam: “Ma a lui il mio studio non piace”. Sam prova a tagliare corto, spiegando che semplicemente non approva certe “decorazioni”. Ma Raymond, ironico, incalza spiegando di sentirsi a proprio agio tra drappeggi rossi e neri come il copriletto, i “selvaggi” tappeti ricamati e i disegni erotici di Paul. Tutte cose per le quali Sam lo ha sempre criticato, definendole volgari e appariscenti. La verità è che “lui è nordico e io sono nero” spiega Raymond, e quel debole per i colori accesi “è una testimonianza dell’inferiorità della mia eredità razziale”. Sam non ci sta e tiene a precisare che i disegni di Paul sono proprio osceni, “non sono altro che falli eccessivamente colorati”. Il tempo di preparare un cocktail e la diatriba riprende: da una parte Raymond e Stephen che mandano giù con un solo sorso il bicchiere di gin e dall’altra Sam che sorseggia appena e subito ripone il bicchiere sulla mensola del finto caminetto, sempre mantenendo un’aria schifata. Non importa, Raymond non si ferma e avverte di voler ripagare quell’immediata simpatia per Stephen spiegando come e con quali tipi stravaganti vive laggiù, in quel quartiere così difficile e cupo come Harlem, che non è proprio l’ambientino più adatto per chi sbarca per la prima volta negli States…
È il 1932 a New York, Harlem. Eccoli il tempo e il luogo nei quali Wallace Thurman ambienta questo romanzo che è insieme commedia e tragedia. Per oggetto la rappresentazione di quel variegato universo umano che effettivamente fu il mondo della controcultura africana. Alle spalle la mitica America del jazz, davanti il suo glorioso tramonto, per cedere il passo ad una nuova era alla quale guardavano con speranza artisti e intellettuali. Ma, come spesso accade nelle vicende umane, le grandi aspettative sono tradite dalle contraddizioni, dalle difficoltà, dalle ansie della quotidianità. Così Raymond (alter ego di Wallace Thurman) è lo scrittore proteso a raccontare nei dettagli il suo tempo e i suoi eroi ma è frenato dal blocco che gli impedisce di andare avanti nella stesura del suo capolavoro. C’è Paul Arbian, artista bisessuale, edonista, che un po’ ricorda Oscar Wilde nella determinazione di puntare a provocare. Poi c’è Eustace, un cantante sinceramente attratto dalla musica classica e pur costretto, per tirare a campare, ad esibirsi in concerti spirituals. Di personaggi ben definiti ce ne sono ancora molti altri. La caratteristica che li accomuna? Sono tutti imperfetti, secondo quel canone che la massima di Gor’kij collocata all’inizio del romanzo stigmatizza con sarcasmo. Ebbene è proprio questo l’universo che tra feste scatenate e perdute ubriacature caratterizzò il mondo di Nigeratti Manor al 267 di West 136 th Street. È l’atmosfera che si respirò attorno alla rivista “Fire” di cui Thurman fu il fondatore, crocevia strategico per la consapevolezza dei neri d’America. Lettura coinvolgente e non priva di colpi di scena. Lettura essenziale per comprendere la “negro life” che Thurman raccontò negli altri suoi romanzi e anche nelle pièce teatrali messe in scena a Broadway.