
Dayton, Ohio, ultimi anni dell’Ottocento. Wilbur e Orville, due dei cinque figli del pastore protestante Milton Wright, erano talmente affiatati e simbiotici da sembrare due “gemelli diversi”.Tranne l’altezza, i tratti somatici e poco altro, avevano infatti un’infinità di cose in comune. Erano persone riservate, lavoratori infaticabili e figli devoti alla propria famiglia di origine. Amavano la musica, mangiare, cucinare e non bevevano alcolici. Avevano anche voce e calligrafia simili, quasi indistinguibili, e trascorrevano così tanto tempo insieme che, quando si trattò di aprire il conto in banca, ne aprirono uno solo, ma cointestato. Nessuno dei due riusciva a stare fermo, con le mani in mano: dovevano fare sempre qualcosa. E quel “qualcosa”, nel tempo, si era materializzato nella ristrutturazione della casa paterna, nella progettazione e costruzione di una pressa con la quale avevano avviato una tipografia e nell’apertura di un negozio in cui realizzavano, vendevano e riparavano biciclette. Ma poi, nell’estate del 1896, il venticinquenne Orville era stato colpito dalla febbre tifoidea. Nel mese trascorso a letto, suo fratello, che in quel periodo stava leggendo la storia di Otto Lilienthal, l’appassionato di alianti rimasto ucciso in un incidente, per alleggerirgli le giornate aveva continuato la lettura a voce alta. E in quel modo, non solo aveva trasmesso a Orville la sua stessa curiosità sulle nuove frontiere dell’aeronautica, ma gli aveva instillato anche il medesimo desiderio di verificare, in prima persona, se il volo umano fosse davvero possibile e praticabile…
Se si cerca una storia in cui l’abnegazione, la sete di conoscenza, l’impegno, il lavoro duro, la tenacia alla fine pagano, quella dei fratelli Wright è esemplare. Due giovani uomini “senza alcuna preparazione universitaria, nessun apprendistato tecnico ufficiale, nessuna esperienza di lavoro con altri se non tra di loro, nessun amico nelle alte sfere, nessun sostenitore finanziario, nessun sussidio governativo, e poco denaro nelle tasche”, sono stati i protagonisti un avvenimento epocale, che ha cambiato la storia dell’umanità: l’invenzione dell’aeroplano. Dopo quattro anni di tentativi, incidenti, esposizione alle intemperie, di indifferenza da parte delle autorità e derisione da molta gente comune, alla fine riuscirono a dimostrare che l’uomo poteva volare. Tutto aveva avuto inizio da bambini, con uno dei primi giocattoli regalati dal padre: un piccolo elicottero fatto da due eliche con degli elastici attorcigliati. Un aneddoto, questo, che David McCullough riporta, insieme a moltissimi altri, in quest’opera appassionante e documentatissima. Con una fluidità magistrale e un ritmo sempre sostenuto, l’autore (vincitore di due premi Pulitzer e due National Book Award) alterna la narrazione a fotografie, brani delle lettere che i fratelli inviavano ai familiari, ritagli di giornale che celebravano i progressi dei loro esperimenti e testimonianze dei primi, increduli, spettatori dei decolli del Flyer, “la macchina volante”. Un’opera meritoria. Anche commovente: il 17 dicembre 1903, “Wilbur volò poco più di ottocento metri in aria, arrivando a una distanza di duecentosessanta metri sul terreno in cinquantanove secondi”.