
Il 26 luglio del 1945 veniva diffusa la Dichiarazione di Potsdam, ultimatum che intimava la resa del Giappone. Nel corso di una conferenza stampa, il primo ministro giapponese Kantaro Suzuki dichiarò: “Dobbiamo mokusatsu la dichiarazione”. Il termine mokusatsu, nelle intenzioni di Suzuki, voleva esprimere qualcosa di simile a un “no comment”, espressione priva di un preciso riscontro nella lingua giapponese. Gli americani tradussero con “ignoreremo”, “tratteremo con silenzioso disprezzo” e il 30 di luglio il “New Yorker” titolò: “Il Giappone respinge ufficialmente l’ultimatum di resa degli Alleati”. Di lì a poco si sarebbe deciso il destino di Hiroshima. Non è certo possibile attribuire la totale responsabilità della tragedia alle difficoltà di traduzione. Tuttavia, la vicenda mostra che “le scelte linguistiche di un traduttore possono avere conseguenze enormi” in grado di alterare gli equilibri della Storia. E dunque quali e quante libertà possono concedersi i traduttori? Come comportarsi quando bisogna assumere delle decisioni e prendere posizione di fronte alle inevitabili “discrepanze esistenti fra una lingua e l’altra”? È preferibile veicolare il senso senza troppe mediazioni o “normalizzare” gli aspetti meno familiari dell’originale, rendendoli così più accessibili al destinatario? La traduzione è un lavoro come un altro, ma le azioni del traduttore “possono cambiare il mondo intorno a lui più di quanto si aspetti”...
Originale la prospettiva che la giornalista, traduttrice letteraria e interprete giudiziaria Anna Aslanyan sceglie di adottare in questo suo primo libro per raccontare il ruolo del traduttore. Una figura essenziale, tramite tra linguaggi e culture differenti, chiamata – proprio come i funamboli evocati dal titolo – a calcare con cautela il filo delle parole, a soppesare ogni passo della sua attività. Impresa non semplice considerando le molte variabili di cui tener conto e la necessità di “lavorare a più obiettivi contemporaneamente: trasmettere il messaggio con efficacia e rispettare vincoli precisi, conservarsi integri e mantenersi flessibili. Per tenere tutto in equilibrio”, spiega ancora l’autrice, i traduttori “si muovono incessantemente fra queste quasi impossibilità, e il mondo insieme a loro”. È proprio su tale delicato equilibrio che la Aslanyan intende riflettere e lo fa attraverso una serie di episodi di “lavoro sul campo”. L’autrice analizza in diciotto agili capitoli modalità, curiosità, ambiguità di traduzioni che hanno accompagnato – quando non determinato – fondamentali spartiacque storici: dai “duelli” di proverbi negli incontri tra Nixon e Chruščëv alle barzellette di Silvio Berlusconi adattate all’impronta per un uditorio russo; dalle avventure – e disavventure – dei dragomanni nel Vicino Oriente alle scoperte dell’astronomo Schiaparelli relative ai “canali” di Marte; dalla nascita dell’interpretazione simultanea in preparazione del processo di Norimberga allo sviluppo di algoritmi di traduzione sempre più precisi. Con lucidità e perizia, Anna Aslanyan delinea l’affascinante ritratto di un lavoro di mediazione linguistica e culturale “gioioso e rischioso”, celebrandone le imprese, le responsabilità e tutti quei risultati, spesso invisibili al grande pubblico, che pure non dovrebbero mai esser dati per scontati.