
Agata non è mai riuscita a camminare con le spalle dritte. In tutte le foto la si vede puntare gli occhi verso il pavimento di ceramica della cucina di casa, i tappeti del corridoio o i sassi del cortile. E sempre, ad accompagnare questo sguardo rivolto in giù, c’è il ricordo della voce della madre che ogni volta le ripete di tirare su la testa. Ora Agata si esorta da sola a sollevare il viso e lo sta facendo anche in questo momento, mentre si guarda allo specchio e continua ad obbedire agli ordini di una madre assente da tanto, troppo tempo. Ha a disposizione trenta minuti per truccarsi esattamente come lui desidera – la preferisce con un trucco naturale – e mescolare i colori che maggiormente si avvicinano al suo incarnato. Staserà ci sarà Samuele e tutto il resto passa in secondo piano; per questo ha spostato l’appuntamento con il suo autore. Agata è una editor e ha scelto questo mestiere per praticare il più possibile la lingua italiana, che tanto ama. Le piace leggere parti di romanzi in divenire e stralci di storie che si costruiscono pian piano. Ha cominciato la sua carriera lavorativa facendo la giornalista, ma poi, dopo tre anni, ha abbandonato e ha deciso che la soddisfa di più seguire la fantasia della gente e aiutare aspiranti scrittori a seguire le loro fantasie alla ricerca di nuove vite. Ogni cinque minuti afferra il cellulare e controlla lo schermo. Cerca un messaggio con il suo nome, ma non lo trova mai e continua a nutrirsi di queste mancanze. A dir la verità, la sua intera vita ruota sulle mancanze, prima tra tutte quella della madre. Ma non c’è più tempo per pensarci, ora. Tra ventinove minuti Samuele dovrebbe arrivare. Agata va in cucina e mangia due ciliegie. Dopo diciassette minuti, il telefono continua a non segnalare alcun messaggio in entrata. Quando l’orologio segnala che mancano nove minuti il cellulare vibra: c’è il suo nome e ci sono le sue parole racchiuse in due righe. Un contrattempo urgente di lavoro gli impedirà di raggiungerla…
La scrittura come mezzo capace di colmare il più lacerante dei vuoti, quello di una madre che si allontana, forse senza un vero motivo, dal nucleo familiare, ove rimangono, orfani e monchi, un marito e una figlia adolescente. È una storia d’amore affamato e svuotato quella contenuta nell’ultimo romanzo di Elena Mearini, autrice milanese, docente di scrittura creativa e poesia; è la narrazione, struggente e bellissima, di un abbandono immotivato e dell’affannata ricerca di risposte; è il ritratto di una madre e una figlia che sono una specchio dell’altra; è il tentativo, da parte della protagonista, di intrecciare rabbia, assenze e sentimenti attraverso i ricordi e il dialogo – sotto forma di diario in terza persona – con la madre, fino ad arrivare al vero confronto necessario, quello con se stessa, percorso necessario per raggiungere la propria identità. Agata, quarantenne insoddisfatta e irrisolta, nutre il suo quotidiano di illusioni e si circonda di briciole e di inganno fino a quando realizza l’inutilità della fuga di fronte alla mancanza. Occorre fermarsi e ascoltare ciò che si nasconde dietro le parole non dette; ecco perché la donna decide di seguire le tracce della madre, dal momento in cui si è allontanata da casa, per scovare parole che si fanno gesti e gesti che diventano parole. Con una prosa ora tagliente come un bisturi e ora lirica come un verso di poesia, la Mearini costruisce per Agata un sentiero fatto di parole – ognuna delle quali è una ferita del passato mai del tutto rimarginata –, unico strumento in grado di raccontarle l’amore mancato e aiutarla a liberarsi dal fardello del passato, ormai troppo ingombrante e insostenibile. Una lettura intensa e toccante; il racconto vivido di un dolore e del coraggio di viverlo ed elaborarlo, per arrivare alla vera scoperta di sé, nella piena consapevolezza che “a volte restare è il solo viaggio utile”.