
È finalmente primavera. “(…) Aprile con le piogge dolci / Ha tolto il secco ai rami e alle radici” e “La gente ha voglia di andarsene in giro / Da pellegrini in plaghe sconosciute, / Per reliquiari più o meno noti”. Tra le località più gettonate in Inghilterra c’è ovviamente Canterbury, dove San Tommaso – ovvero l’arcivescovo Thomas Becket – fu ucciso nel 1170 dai seguaci del Re Enrico II e dove sono conservate le sue reliquie. Anche Geoffrey è diretto in quel luogo benedetto e all’inizio del viaggio, “(…) alla Locanda del Tabarro / Bello pronto per quel pellegrinaggio / Verso il Santo, con fede e coraggio”, incontra una comitiva di ben ventinove persone, anche loro dirette a Canterbury. Dopo qualche ora ha fatto conoscenza con gran parte della brigata e decide di unirsi a loro nel cammino. È un gruppo assai eterogeneo: c’è per esempio un Cavaliere (“Servo fedele del signore in guerra / Aveva cavalcato in ogni terra / Dei pagani e dei sudditi di Cristo, / E ovunque aveva fama di uomo giusto”), accompagnato dal figlio, che gli fa da scudiero (“Con ricci come appena messi ai ferri / Una ventina d’anni se non erro / (…) allegro, e fresco come il maggio. / (…) Bravo a cavallo, fermo e in movimento, / E a comporre canzoni – e anche nel ballo!”. Al servizio dello scudiero c’è un valletto: “Con un mantello verde con cappuccio / (…) Al petto un San Cristoforo d’argento, / E un corno con una bandoliera verde. / faceva il guardaboschi, di mestiere”. C’è poi una impeccabile, elegantissima suora, una priora “Con un sorriso semplice e ritroso. / (…) Cantava bene il servizio divino, / Con l’accento elegante, un po’ di naso, / E parlava uno splendido francese”. La donna non è solo fine, ma anche caritatevole: “Come piangeva per un topo preso / In trappola, già morto o molto grave!” e “(…) quanti, quanti pianti ad ogni morte, / O per le bastonate di un passante! / Era tutta buon cuore e sentimenti”. Ci sono altri religiosi nel gruppo: una seconda suora, dei preti, un monaco, un frate, un parroco di paese. E poi un mercante, uno studente di Oxford, un commissario di giustizia, un ricco proprietario terriero, un merciaio, un tintore, un carpentiere, un tessitore, un tappezziere, un cuoco, un marinaio, un medico, una signora di fuori Bath, un contadino, un fattore, un mugnaio, un apparitore, un indulgenziere e infine un economo…
Scritto sul finire del Trecento in versi (tranne che per due racconti in prosa) in inglese “volgare” e oggi considerato tra le opere fondanti dell’identità letteraria e linguistica britannica, I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer torna in libreria in un’edizione che presenta importanti peculiarità che la rendono una lettura imperdibile. Il curatore Massimiliano Morini, professore associato di lingua inglese e traduzione all’Università degli Studi di Urbino, ha scelto innanzitutto di presentare ai lettori soltanto i Prologhi e gli Epiloghi dei racconti veri e propri, ovvero soltanto la parte del poema che descrive i trenta pellegrini diretti a Canterbury, le loro caratteristiche e le interazioni tra di loro, riservando alle novelle che quasi tutti loro raccontano (l’intenzione di Chaucer era quella di scrivere 4 storie dal punto di vista di ciascun pellegrino, 2 per il viaggio di andata e 2 per quello di ritorno, per un totale di circa 120 storie, ma il viaggio di ritorno da Canterbury in realtà non è incluso e alcuni dei pellegrini non raccontano storie) soltanto dei brevi riassunti. È lo stesso Morini a spiegare a Mangialibri le ragioni della sua scelta: “Nei Racconti di Canterbury, a differenza di quel che succede nel Decameron, la cornice narrativa si legge in tutto e per tutto come un romanzo, se mi si perdona l’anacronismo. I personaggi (con rare eccezioni) hanno tutti un carattere e uno stile, fissazioni e antipatie. Tiene insieme il tutto il Chaucer narratore, che si finge ingenuo e intanto molla fendenti satirici in rima; mentre il Chaucer personaggio è una specie di inetto, che l’oste ha buon gioco a mettere in mezzo. Prologhi ed Epiloghi dei Racconti, da soli, formano uno dei testi più divertenti dell’intera letteratura in lingua inglese”. In secondo luogo, nella sua traduzione Morini ha privilegiato la vis comica dei versi di Chaucer. Ma i sorrisi, le fisime e i peccatucci tutto sommato veniali dei pellegrini nascondono forse qualche ombra. Terribili carestie, spaventose pestilenze, sanguinose guerre, una popolazione europea più che dimezzata e in Inghilterra una rivolta contadina che nel 1381 – pochissimi anni quindi prima che Chaucer scriva I racconti di Canterbury – mette a ferro e fuoco Londra, Cambridge e proprio Canterbury: il Trecento è un secolo di catastrofi e stragi, eppure nell’opera non ve ne è traccia alcuna. Una assenza sospetta, che alcuni critici fanno discendere dalle posizioni politiche di Chaucer, conservatore che probabilmente vede nel microcosmo di questo pellegrinaggio una sorta di utopia nostalgica. Spiega ancora Morini: “Scrivendo in coda a un secolo tragico e violento, Chaucer ritrae l’Inghilterra come una nazione armoniosamente discorde, dove la virtù prevale sul vizio e il vizio è occasione di riso, più che motivo di indignazione. Nel 1381 c’era stata una rivolta terribile, nata da una protesta contro una nuova tassa. Chaucer era integrato nel sistema della corte inglese e dei commerci londinesi, e quindi non poteva certo schierarsi coi rivoltosi; ma fa comunque effetto che in un’opera in cui si parla e si vede di tutto - sesso, escrementi, cuochi ubriachi, lollardi e religiosi corrotti - non ci sia nemmeno un cenno a quella mezza rivoluzione appena soffocata nel sangue. E il prete di campagna e il contadino povero (potenziali rivoltosi solo pochi anni prima) sono così virtuosi e rassegnati al loro destino da non sembrare nemmeno veri”.