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I santi d’argento

isantidargento

È arrivato a Bacoli, trenta chilometri da Napoli, dieci anni fa. Prima viveva a Milano e un giorno è apparso sul porto della cittadina vecchia, con la sigaretta tra le labbra e gli occhi a fissare il vuoto. Vive in un piccolo appartamento che ha le mattonelle azzurre e tutto ciò che gli serve. Non ha amici, Vincenzo. L’unico con cui parla è Antonio, un pescatore che ha conosciuto una settimana dopo essere arrivato in città. Gli ha chiesto da fumare e, di fronte al silenzio di Vincenzo, lo ha scambiato per uno straniero e ha attaccato a parlare in inglese. Quando ha capito l’equivoco è esploso in una delle sue risate, quelle che riempiono l’aria ferma dei pomeriggi sul molo, quando Antonio è seduto al bar e gioca a carte. Tutti giù al molo hanno notato Vincenzo, il forestiero, e con il tempo si sono abituati alla sua presenza e alle sue allucinazioni. Per tenere a bada queste ultime, Vincenzo assume medicinali, mille gocce di cui è diventato dipendente. Oggi Vincenzo, dopo aver preso una gallinella di mare dall’amico pescatore, si ferma al bar del lido per acquistare una bottiglia di Falanghina, ottima per accompagnare il pesce, e, mentre attende che la vadano a recuperare al ristorante, si siede in uno dei tavolini all’esterno, in compagnia del “Corriere dello Sport” e di un buon caffè. Poco dopo, sta per alzarsi quando un’ombra compare di fronte a lui. Si tratta di un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto robusto, che Vincenzo non ha mai visto prima. L’uomo, che suda copiosamente, si siede e gli rivela di essere un avvocato. È stato mandato lì da Giovanni Testa, un amico di Vincenzo che da tempo sconta una pena in carcere. È successo che il figlio di Giovanni è morto da qualche giorno: pare suicidio, a seguito della depressione cui l’uomo è caduto quando è stato lasciato dalla moglie. Giovanni però non è convinto e vorrebbe che Vincenzo indagasse in sua vece per scoprire cosa sia realmente accaduto. Vincenzo ha un grosso debito nei confronti di Giovanni, un debito morale, ed è davvero difficile tirarsi indietro…

Giancarlo Piacci – napoletano, classe 1981 – firma un romanzo duro, spietato e appassionante. Attraverso gli occhi e la pelle di Vincenzo, il protagonista, uomo complesso che la vita ha ripetutamente ferito, Piacci offre al lettore il ritratto di una Napoli fatta di vicoli dimenticati, in cui sono violenza e degrado a dominare. Faide tra uomini che fanno del profitto la loro bandiera e che in nome del profitto, appunto, si scontrano senza esclusione di colpi; lotte interne durissime che si consumano tra le vie di quella città cupa da cui Vincenzo da tempo si è allontanato, forse inutilmente. Sì, perché nonostante la distanza, le allucinazioni restano e la vita dell’uomo continua a essere segnata da incubi ricorrenti, riflesso di verità che “sono cappi al collo; più ci si dimena per liberarsene e più stringono e soffocano”. Non si sfugge al proprio passato, occorre farsene carico, metabolizzarlo. Tra le viuzze di una città zeppa di segreti, una “zingara dai denti d’oro” capace di tacere, Piacci ambienta un romanzo che appassiona fin dalle prime righe; una storia intensa che parla di verità e amicizia, passato e dolore, vita ai margini e ferite. Le parole, impresse sulla carta e spesso intrise di poesia, si colorano e si fanno immagini cariche di suoni, profumi e sapori; il passato ritorna e le contraddizioni chiedono di essere svelate, mentre la verità viene affrontata. Una scrittura e una storia che lasciano il segno; un intreccio davvero ben confezionato; personaggi a cui è facile affezionarsi e di cui si vorrebbe sentire parlare ancora e ancora.