
Con I segreti erotici dei grandi chef Irvine Welsh si misura con un intreccio che ha dell’assurdo, cosa insolita nei suoi romanzi nei quali in effetti non inserisce quasi mai aspetti soprannaturali o inspiegabili razionalmente. Brian Kibby diventa per Skinner quello che il ritratto era per Dorian Gray, ovvero la cartina di tornasole di una vita fatta di dissolutezza, alcol e droga. Anche se ragionando con le categorie comuni Kibby dovrebbe essere un ragazzo modello e Skinner rappresentare lo stereotipo del bad boy, non possiamo non considerare il giovane Brian come la summa dei peggiori tratti distintivi della Scozia: bigotto, retrogrado, nerd senza vita reale, si autocolpevolizza ogni volta che si masturba e nella seconda parte del romanzo tira fuori la cattiveria e lo spirito di rivalsa che solo un maniaco cattolico che si destina al martirio e alla privazione può raggiungere. Skinner, invece, rappresenta quello che nel profondo ciascuno dei lettori vorrebbe essere, un uomo magnetico e affascinante, che per giunta con uno strano sortilegio riesce ad abusare di alcol e cocaina senza mostrarne i segni sulla sua sfolgorante giovinezza. Insomma, una sorta di “superuomo welshiano”. L’autore dunque segue due filoni: quello dell’alcol visto come demone che devasta le interazioni sociali, e quello della fede, non meno ammorbante e rovinosa per le vite della gente, e soprattutto nelle pagine finali la critica alle religioni come sinonimo di ipocrisia e falsificazione della realtà viene fuori con tutta la sua veemenza. Perché assegnare allora solo due panini a un libro del genere? Semplicemente perché il finale è orrendo, improvvisato, e sembra che le parole siano rimaste intrappolate nella penna di Welsh, sempre abile nel sorprendere e qui in grado di farlo una volta tanto in maniera assolutamente negativa.