
Milano. Luglio 2014. Davide Del Prato nell’aria infuocata estiva percorre a piedi i pochi metri che lo separano dall’ingresso del parallelepipedo di venti metri tutto vetro e acciaio in cui c’è la sede del giornale. Prima di entrare si bagna i polsi e inspira profondamente. L’imbottitura a stringergli sui fianchi, la Belstaff di lino serrata fino al collo gli stanno facendo allargare la macchia di sudore dietro la schiena. Poi entra. L’addetto alla sicurezza lo saluta con un cenno del capo. Lui va dritto verso l’ascensore. Quando raggiunge l’ultimo piano sono le 10:05. La riunione di redazione del mattino è appena cominciata. Attorno al grande tavolo di vetro infatti discutono il direttore Marco La Crusca, i suoi vice, i caporedattori. Nessuno di loro nota Del Prato entrare o se lo notano decidono di ignorarlo. Davide per un attimo vedendo quel conciliabolo di servi fedeli non può fare a meno di ripensare con rabbia e struggimento a quanto ci aveva creduto il giorno della sua assunzione, all’idea di poter lavorare realmente in un giornale indipendente. Ma con l’avvento di La Crusca il cieco opportunismo era diventata l’unica reale mission di quella testata. Davide sente la voce del suo collega Miceli che sembra finalmente accorgersi di lui mentre il direttore imperterrito continua ancora con il suo inutile monologo. Solo quando vede la giacca di Del Prato aperta con l’imbottitura piena di fili penzolanti e una specie di joystick nella sua mano, smette improvvisamente di parlare... Lucia come al solito lo sta catechizzando sul comportamento da tenere una volta arrivati a casa dei suoi, sopratutto con sua madre, quando il telefono di Carlo prende a suonare. Carlo guarda il display ma non risponde, dicendo alla compagna che è solo l’ufficio, dando a intendere che non vuole seccature almeno per oggi. Più tardi, consumato il pranzo all’interno di casa Merisi il pomeriggio domenicale procede sui consueti binari diplomatico/borghesi ben noti a tutti i componenti della famiglia. Binari diplomatici dettati dall’imbarazzo della futura suocera nel ritrovarsi un genero quasi coetaneo, ma il fatto di essere il Procuratore Aggiunto, un inquirente oltretutto da tutti ritenuto brillante, è bastato per indorare la pillola. La finta armonia soporifera di fine weekend è interrotta però da una telefonata. C’è un urgenza al commissariato ma è bene che a presentarsi lì, specifica Liuzzi, ci vada solo Lucia, senza il Procuratore Carlo Sogliani... L’uomo non sa nemmeno più dirsi da quanto tempo cova oramai quell’idea. Forse da quando gliene ha parlato Luana. Ed è per questo che ogni volta che si ritrova avvinghiato a lei nel retrobottega della merceria Calypso e riconsidera il grigiore della sua esistenza, quel pensiero gli risale dalle viscere, sempre più incalzante, sempre più reale. Riusciva a sparire per un po’ quella fissa bizzarra solo davanti alle moine di suo figlio una volta rientrato a casa, ma poi i rimproveri continui e imperterriti di sua moglie che lo considerava un misero fallito, o peggio i rimbrotti e la considerazione prossima allo zero di suo suocero capace solo di ricordargli che se lavorava doveva ringraziare soltanto lui, diventavano come benzina sul fuoco o concime capace di far germogliare quell’idea rendendola sempre più rigogliosa, sempre più insistente, sempre meno facile da ignorare. Ecco perché quella mattina Ulisse, messi i piedi giù dal letto, decide che è finalmente giunto il momento di agire...
Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo, Sandrone Dazieri, Marcello Fois, Bruno Morchio e infine Enrico Pandiani. Sei delle migliori firme del noir italico riunite in questa raccolta di cinque racconti (Bonini e De Cataldo firmano ‒ come già in due delle serie cult sulla Roma post Magliana ‒ lo stesso racconto) per mettere in scena il Male, in tutte le sue molteplici e abbacinanti forme. Da quello senza spargimenti di sangue dei colletti bianchi della finanza e del potere a quello dell’uomo qualunque stanco d’ingoiare senza fine la sua umiliante frustrazione, dal male che si nutre della disperazione di una madre che cerca la figlia scomparsa a quello che si insinua facendo vacillare una coppia figlia delle istituzioni. Non tutti i racconti in realtà tengono fede alle premesse, come spesso accade in questo tipo di raccolte nelle quali spesso “il mestiere” cannibalizza l’estro, ma nel complesso i racconti sono tutti godibili e ben orchestrati, lasciando al lettore il compito finale di interrogarsi ancora una volta su quanto labile e spesso invisibile sia il confine, il crinale che separa il bene dal male, oltrepassato il quale chiunque può trovarsi faccia a faccia con il proprio ineluttabile mostro.