
Fra il 10 ottobre ed il 2 novembre 1944 la città di Alba, nelle Langhe piemontesi, è prima conquistata da 2.000 partigiani, poi ripresa da 200 repubblichini. Con un accordo strappato in extremis, i partigiani lasciano uscire i fascisti e si appropriano della città liberandola dal controllo dei fascisti: entra allora nella via Maestra e nello stupore generale dei cittadini il variopinto esercito partigiano, fatto di colori diversi, di divise diverse, accompagnato e sorretto anche dalle donne partigiane, indifferenti all’ordine loro impartito di rimanere. Vogliono esserci anche loro in quel momento di gioia per una vittoria inaspettata. I partigiani, ingolositi dal successo, si appropriano delle macchine, della benzina, degli averi dei repubblichini scappati, dei loro vestiti, delle poche ricchezze. È il momento dei festeggiamenti, delle campane, dell’assalto alle case e soprattutto ai due postriboli, dove poter finalmente riassaporare altre gioie della vita. Ma non c’è tregua: nei giorni successivi da Radio Torino arrivano le avvisaglie minacciose della vendetta temuta per lo smacco ricevuto. Non è il momento di riposare, il nemico può tornare da un momento all’altro, bisogna organizzare la resistenza della città. Infuriano le riunioni, c’è anche un incontro per una soluzione ‘pacifica’ fra i gerarchi fascisti e i partigiani: i fascisti arrivano in barcone sul Tanaro, con una ostentata sicurezza che fa temere i partigiani. Ore di colloquio e poi un saluto in cagnesco: “Ci vediamo sul campo!” “Ci saremo”. Si montano le sentinelle, sono dislocati i posti di controllo nei punti nodali del campo di battaglia. Finché nella notte del 2 novembre il fronte si rompe: l’esercito repubblichino supera il ponte di corde, accerchia i partigiani che restano legati alla speranza telefonica dell’arrivo dei rinforzi, ma la battaglia infuria violenta e cruenta. Non serve che le sirene diano il segnale, perché molti dei partigiani non sono più ad Alba, sono alla fiera del paesello vicino dove si contendono qualche misero premio. E alla fine i fascisti entrano in Alba e vanno da soli a suonarsi le campane: Alba rientra nella Repubblica…
I racconti che compongono l’esordio letterario di Beppe Fenoglio, raccolti sotto il titolo de I ventitre giorni della città di Alba, descrivono con uno stile giornalistico, a tratti cronachistico e documentaristico, le vicende della Brigata Garibaldi alla quale lo scrittore piemontese si era unito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Sono un reportage generoso e puntuale di vicende umane raccontate con apparente distacco e allo stesso tempo con profondissima attenzione psicologica, come solo un testimone oculare poteva fare. Dei partigiani ci colpiscono l’innocenza e l’umana confusione di molti uomini che faticano a capire gli ordini, a volte contrastanti, troppo concitati per dei combattenti improvvisati. Fenoglio si intrattiene molto sullo stato d’animo di quei giorni, dall’indifferenza dei cittadini alla spavalderia dei fascisti. Il partigiano appare organizzato, ma pur sempre umano e quindi tentennante: il suo cuore straborda di orgoglio e speranza, manca però quella freddezza meccanica che invece è in tutte le azioni del nemico. Pubblicati per la prima volta nel 1952 da Einaudi nella collana “I gettoni”, I ventitre giorni sono stati più volte ripubblicati, sempre con lo stesso successo di pubblico: dall’edizione del 2006 si sono arricchiti della prefazione dell’italianista Dante Isella, preziosa gemma per inquadrare la storia editoriale della raccolta e lo stile cristallino del giovane Fenoglio, diventato poi marchio d’artista di tutta la sua produzione letteraria. Questa edizione 2022 si fregia dell’introduzione di Davide Longo.