
Ottobre 2017. Il poeta Pierluigi Cappello sta morendo. L’amico Alberto si reca in visita. Facendosi forza entra nella stanza, osserva il corpo fermo, incosciente, la respirazione debole, tutti gli oggetti intorno (“Era circondato da flebo e medicine, e dai suoi oggetti…Le cose sanno che ce ne andiamo, e proprio per questa terminale certezza sono capaci di essere dolci e parlarci con una lingua umana”). È il momento dei ricordi e, mentre esce dalla stanza per prendere una boccata d’aria in giardino, si rammenta di come prendesse in giro Pierluigi, quasi tetraplegico, per la lentezza con cui scriveva: “Sapevo certo della fatica, ma scherzare era un modo per stargli vicino senza avere pietà, perché la pietà non serve a nulla”. Sopraffatto da una crescente angoscia per la morte imminente dell’amico, finge di avere un impegno e se ne va. La loro amicizia nasce vent’anni prima, quando Alberto è obiettore di coscienza in un’associazione culturale del luogo, la Bassa friulana. Laureato in giurisprudenza, faceva praticantato da avvocato e notaio, “ma nel profondo di me credevo di essere un poeta e che la letteratura fosse il mio destino”. Per questo aveva ideato un evento che unisse musica e poesia; gli serviva un nome di prestigio per movimentare la serata e per darle un tocco di prestigio: Pierluigi Cappello fu il primo nome che gli venne in mente. Il poeta non era ancora particolarmente conosciuto, ma aveva appena pubblicato un libro e questo “lo innalzava di un gradino sopra ai poeti inediti invitati alla serata”. La prima impressione che Alberto ebbe di Pierluigi fu quella di un ragazzo dal “sorriso gentile ma era come se stesse dentro una campana di vetro”…
“Non credo di avere un carattere molto adatto al mondo, diciamo così, o forse ho un carattere simile a molti altri, che percepiscono la realtà là fuori come qualcosa di strano, e sé stessi come qualcosa di inadatto, più o meno sempre. Dovevo trovare un posto dove mi sentivo meno inadatto e questo posto, che potrebbe essere definito come la mia casa, era la letteratura”. Chi parla è Alberto Garlini, classe 1969, in una intervista rilasciata a “Les Flâneurs Magazine” nel novembre 2020. La trama del suo romanzo autobiografico si sviluppa sostanzialmente intorno a questa condizione che si interseca indissolubilmente all’amicizia ventennale col poeta friulano Pierluigi Cappello, scomparso l’1 ottobre 2017. Insoddisfatto perennemente, Garlini trova una pace provvisoria ma fittizia nell’inventarsi una facciata, un personaggio da indossare per nascondere il suo male di vivere, adeguandosi volta per volta alla situazione e all’interlocutore, per questo dice “forse la fiction era la mia via di fuga”; e lo crediamo, visto che è scrittore (oltre che curatore di Pordenonelegge). I venti anni di amicizia profonda col poeta di Chiusaforte (ma nato a Gemona), da lui definito (nella stessa intervista sopra accennata) come il suo Virgilio, la frequentazione assidua di due anime affini anche se diverse, portano alla crescita di entrambi. Cappello, che era stato accusato di scrivere poesie che “sembravano costruzioni artificiali dove la bellezza del ritmo o del suono prevaricava il senso”, col passare del tempo e grazie all’incontro col poeta italiano Mario Benedetti, scopre il mondo al di là della finestra da dove lo osserva, non più filtrato nemmeno tanto metaforicamente dal vetro. Dai dialoghi tra Alberto e Pierluigi, proprio su questa caratteristica, nasce la metafora del canto dell’ippopotamo: “ci piaceva considerarci degli animali sgraziati, degli ippopotami, appunto, che però possono cantare con una voce vera”, un canto di lode alla vita, che è bella anche se si è sporchi “di tutto il fango che si può trovare in questo mondo di merda”. Ma mentre Cappello si avvicina alla massima espressione della sua poesia, Garlini resta fermo, ancorato al suo male di vivere, incapace di opporsi alla forza centripeta dell’abisso che lo chiama. La via di uscita esiste e si chiama Ewa. Lei è bionda, polacca, bella e in remissione da una forma di leucemia. Si incontrano ad Assisi, passano una notte di baci e niente di più ma quei baci, sinceri e pieni di sentimento, sono la spinta verso la resurrezione: “Era grazie al dolore di Ewa, alla sua malattia quasi mortale, che io potevo rinascere. Era grazie al suo amore e all’inesprimibile dolcezza e pazienza del suo dono, che ero tornato a sentire la vita come se fosse una grazia”. Per chi ha amato Pierluigi Cappello questo libro fa molto male, lo dico per certo (ho dovuto sospendere la lettura spesso, soverchiata dal dolore della mancanza) ma abbiamo un debito di gratitudine verso Garlini, che ci ha fatto entrare con molta delicatezza nel mondo privato del grande poeta e, con grande fiducia e forza d’animo nel suo tormentato rapporto con sé stesso. Lo cifra di scrittura è piacevole, sfila sotto gli occhi con grande disinvoltura, ci sono momenti addirittura spassosi (su tutti il primo rapporto sessuale con Esther, personaggio inventato che in sé concentra tutte le esperienze sentimentali e non dell’autore) anche se portano in sé un retrogusto amaro.