
Lunedì sera. Rayelle Reed parte in fretta dal campo caravan di South Lake e arriva fino a un bar del West Virginia. Compie ventitré anni quel giorno, ma non ha affatto voglia di festeggiare: era stata sul punto di avere un marito – il figlio del pastore battista – e un figlio, ma poi le cose erano andate diversamente... Rayelle ha dovuto imparare a fare i conti con la morte fin da piccola: suo padre le è morto di fianco, mentre lei era solo una bimba che gattonava su un tappeto... da allora, Rayelle sente spesso il bisogno di aggrapparsi a qualcosa per poter andare avanti, per poter procedere. Khaki, sua cugina, da piccola, aveva un dono speciale: solo guardando le persone riusciva a indovinare come sarebbero morte... Rayelle è allo sbando, stanca e apatica, sopravvive in un corpo fatto di “pelle morta” (“ogni giornata è una massa indistinta di ore passate a riprendersi, […] come i lunghi postumi di una sbronza”), poi incontra Couper, un giornalista investigativo che sta seguendo le tracce di una serie di ragazze scomparse. Insieme attraversano le regioni a sud degli USA, periferie, cimiteri, motel, luoghi anonimi e senz’anima, alla ricerca della verità, in realtà più vicina di quanto potessero anche soltanto immaginare...
Un’esistenza stoppata, come in un fermo immagine: una vita che continua, ma che le è del tutto estranea. Rayelle si sente ai margini d’una strada di cui fatica a riprendere la direzione – e non a caso l’andare è un elemento centrale del romanzo. Jennifer Pashley ci pone subito faccia a faccia con la marginalità esistenziale delle sue protagoniste, e in primis di Rayelle: il romanzo parte di sera, in un bar di campagna che ha ancora le luci di Natale a giugno. Tutto dà l’idea di intempestività, di quell’insidioso fastidio dell’essere fuori posto, dell’essere in ritardo e sbagliati. L’unica nota di slancio è il fatto che sia lunedì: giorno calmo, apatico per eccellenza, ma anche giorno di inizio, di speranza di cambiamento. Forse per Rayelle qualcosa si sta muovendo... con uno stacco rapido che volta pagina sull’altra protagonista, Khaki, la Pashley ci fa tuffare nel cuore del romanzo, nei suoi tratti più specifici. È un thriller che spiega le emozioni, i sentimenti, che li riporta a galla in modo nitido ed empatico. Bene e male si fondono e si confondono: la crudezza della verità non rende cinica la penna, né tutti i suoi personaggi, ma si bilancia perfettamente con sentimenti positivi. Luce e buio si rincorrono senza vincersi mai l’un l’altro. Le similitudini sono terse e contribuiscono a chiarire gli stati d’animo, anche quelli più fastidiosi e conturbanti. Non si punta a fare effetto sul lettore – eppure non si rinuncia a una trama vivida –, ma a delineare delicatamente quello che c’è dietro ai comportamenti, alle azioni più efferate. Come ci leggono gli altri e come siamo o ci sentiamo realmente; un gioco di specchi e relazioni più o meno torbide, di figure femminili vittime e carnefici. Il caravan è un’elegante occasione di verità: “La gente si limita a ricostruirti dai frammenti, dagli scorci di te che ha intravisto in giro”.