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Il cielo d’erba

Il cielo d’erba

Roma, inizio settembre. Non si frequentano da molto, Francesco e Viola. Oggi sono al parco, a correre. Lui insegue lei che, stanca del suo passo da principiante, ha deciso di staccarlo. Sale e scende per colline e avvallamenti, si muove agile sul pendio, mentre la tuta di acetato la fa sembrare ancora più snella. Muove i gomiti appuntiti con ritmo e sembra voler fendere l’aria che tenta di sbarrarle il cammino. Ogni tanto si volta a controllare lui, che arranca ma non molla. Non vuole perderla. Anche se il fiato si è fatto corto e il cuore sembra scoppiargli in petto. Lui non corre mai e non lo sa proprio cosa sia una palestra. Però ci prova: accelera, riduce la distanza e la affianca. Viola gli insegna come respirare – con la bocca, perché gli si è chiuso il naso – e si esibisce in una serie di movimenti che assomigliano a una coreografia: spalanca la gabbia toracica, apre le braccia, punta il cielo con lo sguardo e si riempie l’aria di polmoni. Poi, senza alcuna fatica, si dirige verso un albero, poggia a terra le mani, si dà una spinta, scalcia le gambe in alto e appoggia i piedi sul tronco. Ora è sottosopra e sospira, beata. Francesco la osserva e realizza che, così, è ancor più difficile decifrarla: i suoi fianchi sono più in alto del solito, le gote spingono verso gli occhi e le danno un’espressione strana, mentre lì dove dovrebbe esserci la testa ci sono un paio di scarpe infangate. Francesco sente uno strano tramestio interno, che gli ricorda quanto quella ragazza gli piaccia. Lei ora è già tornata in piedi e lo sta incitando a fare la verticale. Francesco arranca, fa fatica e, quando con l’aiuto di Viola raggiunge finalmente la posizione a testa in giù, le orecchie gli ronzano e gli manca il fiato. Viola gli spiega che si tratta solo di abitudine, ma ne vale la pena: il mondo capovolto è bellissimo e si può vedere il cielo d’erba. Poi, in un attimo, la ragazza è di nuovo a testa in giù. E allora Francesco vuole esserle accanto: ripassa in fretta le istruzioni, prende la spinta, poggia le mani a terra ed eccolo in verticale, accanto a Viola, i piedi appoggiati al medesimo tronco. Ed è tutto vero: il cielo romano ha cambiato posto ed è diventato la base. In sua vece, una distesa verde e la bellezza invertita di un cielo d’erba. Dovrà imparare presto, Francesco, ad apprezzare il mondo al contrario, dopo che avrà affrontato la paura e il coraggio di scoprirli. E sarà Viola a guidarlo...

Gianfranco Vergoni – romano d’adozione ma perugino d’origine – è un regista e ballerino che esordisce nel mondo della narrativa con una storia potente e delicatissima insieme. Il tema dell’identità di genere è di grande attualità e la penna di Vergoni ne riesce a parlare con una lucidità tale da superare a piè pari ogni possibile stereotipo per centrare il bersaglio con estrema precisione. Il percorso di Francesco e Viola, all’apparenza simile a quello di mille altre coppie di giovani innamorati, imbocca invece una strada nuova, un percorso accidentato in cui è facile perdersi o cadere. Francesco è goffo e timido, Viola è più energica, più cazzuta, se vogliamo. Ma l’incostanza che la caratterizza racconta di un punto nevralgico, un nodo irrisolto che chiede con prepotenza di essere sciolto. E, quando il bubbone esplode, trascina con sé entrambi i pilastri della coppia e ne stravolge le certezze. Viola si sente uomo imprigionato in un corpo che non le appartiene. Vuole uscire dal bozzolo e spiccare il volo come Vittorio. Ma vuole che il marito, Francesco, le sia accanto in ogni fase della transizione e anche dopo, nel suo nuovo sé. Ecco quindi che si profila il nuovo percorso, nel quale quel che i protagonisti devono chiedersi è quanto l’amore possa resistere al cambio di rotta, a una nuova prospettiva, al ribaltamento di ogni presunta certezza. Francesco deve imparare a guardare la realtà da una prospettiva diversa, quella che Viola gli ha fatto scoprire aiutandolo a fare la verticale: piedi in aria e testa giù, il cielo a terra e lassù in alto un tappeto verde, il cielo d’erba del titolo del romanzo. Con un linguaggio delicato e profondo insieme, in cui la drammaticità delle situazioni è stemperata dalla sottile ironia che permea ogni pagina, Vergoni racconta la transizione di genere vista da una diversa prospettiva; mostra la fatica dell’accettazione dell’altro e, soprattutto, di sé; mostra la profondità e l’abisso dell’animo umano e sottolinea la necessità di amare senza rinnegare la propria identità o ignorare i propri desideri, anche quelli che si realizzano soltanto guardando il mondo al contrario.