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Il cuoco dell’Alcyon

Il cuoco dell’Alcyon

L’incubo da cui si è svegliato a fatica in quella mattinata piovosa non promette niente di buono. Naufrago in una barchetta in balia di acque tempestose, bagnato zuppo “d’acqua di celo”, era stato speronato da una gigantesca nave a vela che aveva puntato dritta su di lui. L’unica era stata gettarsi in mare e nuotare ma la violenza delle onde e il movimento dell’elica vicina lo avevano trascinato sott’acqua. Montalbano si è svegliato sudato e con il cuore impazzito, per scoprire che piove a dirotto e che – ironia della sorte – dai rubinetti non viene fuori nemmeno un goccio d’acqua per lavarsi. In commissariato è arrivato a stento perché pure la macchina gli ha dato problemi e, naturalmente, nemmeno lì una macchina di servizio è disponibile, perché manca la benzina. Ovviamente. I soliti tagli del Governo. I suoi uomini sono fuori, alla Trincanato, una fabbrica di scafi che da un paio d’anni – cioè da quando è morto il vecchio proprietario ed è passata nelle mani di suo figlio, dedito soprattutto a donne e gioco d’azzardo – è in difficoltà. Montalbano pensa si tratti degli ormai frequenti disordini provocati dagli operai non pagati ma l’atmosfera cupa e le facce lugubri che trova quando raggiunge i colleghi dicono qualcosa di peggio. Un operaio cinquantenne, Carmine Spagnolo, padre di famiglia, si è impiccato in un capannone dopo essere stato licenziato; anche due dei suoi figli hanno perso il lavoro insieme ad altri dipendenti, nonostante gli operai si siano sempre detti disponibili a fare sacrifici, persino a dimezzare lo stipendio. Ma, evidentemente, la fabbrica e gli operai non interessano a Giovanni Trincanato, detto Giogiò. È talmente antipatico e strafottente che a Montalbano parte una “timbulata” prima di andarsene dopo aver scambiato solo poche parole con lui. D’altra parte hanno poco da fare lì e, sedato uno scontro tra gli operai e la sicurezza, anche i suoi uomini vanno via. Non è un vero caso da seguire, e non lo è neppure la goletta da venticinque metri, l’Alcyon, che Moltalbano vede per caso nel porto, nonostante qualche stranezza sembri esserci, come lo scarsissimo equipaggio a bordo o la strana forma della poppa, modificata come per permettere l’atterraggio di un elicottero. Ma l’attenzione del commissario viene presto distratta da una strana comunicazione che arriva dall’ufficio personale, con la quale gli si intima letteralmente di usufruire delle troppe ferie accumulate e non godute. Sarebbe l’occasione per trascorrere tranquillo qualche giorno a Boccadasse con Livia, se non fosse che all’improvviso, in seguito ad una telefonata a Vigata – per verificare alcune strane cose capitatigli lì che sembrano stranamente legate alle faccende di Trincanato e della misteriosa goletta Alcyon – scopre di essere stato messo fuori servizio e che al suo posto è stato nominato un reggente. In aggiunta, la sua squadra è stata smantellata, Augello e Fazio trasferiti a Montelusa e persino Catarella spostato altrove. Ma cosa sta succedendo davvero? Cosa sta combinando il questore Bonetti-Alberighi? E cosa è questa storia che coinvolge nientedimeno l’FBI?

La trentesima storia che vede protagonista Salvo Montalbano, a venticinque anni esatti dal suo esordio nel 1994 con La forma dell’acqua, è certamente anomala per molti aspetti. Quello che appare subito evidente è che non vi è continuità logica e temporale con l’ultimo romanzo, Il metodo Catalanotti del 2018 e che anzi dal quel filo narrativo nettamente si allontana. La relazione serena con la fidanzata Livia, che invece lì era entrata in profonda crisi; lo smalto e il vigore del personaggio ormai decisamente appannati che in questo romanzo, al contrario sembrano essere quelli dei tempi migliori; sono soltanto alcune delle incongruenze più evidenti. Da un punto di vista narrativo, poi, è evidente che questo giallo d’azione ricco di sfumature da spy story è colmo di effetti cinematografici, tipici di una “pillicula ‘miricana” per dirla nella lingua di Camilleri, con un risultato abbastanza anomalo per le storie di Montalbano cui siamo abituati. Una spiegazione esiste e la dà Andrea Camilleri nella nota finale. All’origine del romanzo c’è il soggetto per un film, una coproduzione italo-americana non andata a buon fine; questa sceneggiatura è stata utilizzata, quindi, per una questa storia che, avverte l’autore, “risente, forse nel bene, forse nel male, della sua origine non letteraria”. Poi, nella nota alla nota, aggiunge che, nonostante qualche contraddizione (a cominciare proprio dall’energia fisica e mentale del personaggio), quando si è fatto rileggere il romanzo gli è comunque sembrato “un buonissimo libro di Montalbano”. E il vecchio Maestro ha pienamente ragione. Se soltanto i lettori più intransigenti lo considerassero in questa ottica per evitare effetti stranianti, ammetterebbero che si tratta di un romanzo trascinante, appassionante e divertente che si fa leggere in un fiato senza consentire pause, tanto il ritmo è sostenuto. Non è vero, quindi, che “tradisce” le storie di Montalbano; è vero soltanto che, per chi ha letto i romanzi in ordine cronologico, può essere strano trovare un Montalbano comunque già preoccupato per le “vicchiaglie” in agguato ma meno “rallentato” e certo meno malinconico di come – a malincuore e un po’ nostro malgrado – ci siamo abituati a incontrarlo negli ultimi anni. Il consiglio è di leggere sena esitazioni questo romanzo, per ritrovare molto di quello che di questo personaggio abbiamo tanto amato in passato, seppure in salsa appena più condita, con buona pace di chi dice che di Montalbano ormai… gli è venuta noia.