
Nelle Causeway, le case popolari di South Brooklyn, corre il 1969. L’uomo a breve metterà piede sulla Luna e Cuffy Lambkin, per tutti Sportcoat, diacono della chiesa di Five Ends, è un morto che cammina. Una mattina, ubriaco fradicio, si è presentato sul piazzale delle Causeway e ha sparato a Deems Clemens, spacciatore che rifornisce di eroina il quartiere. Nessuno sa perché Sportcoat abbia compiuto un gesto del genere. Sportcoat che non ha mai avuto un nemico, che ha avuto una vita difficile, che per quattordici anni è stato allenatore della squadra di baseball del quartiere, Sportcoat la cui defunta moglie è stata tesoriere della chiesa di Five Ends. Le teorie si susseguono una dopo l’altra. Secondo sorella Gee, il motivo è dato dalle sue continue febbri reumatiche; secondo Bum-Bum è impazzito a causa del ritorno delle famigerate formiche; secondo Izi Sportcoat ha agito su ricatto di un perfido gangster ispanico; secondo Hot Sausage, custode delle Cause Houses e migliore amico di Sportcoat, il diacono ha sparato a Deems a causa del baseball. In realtà, nemmeno Sportcoat sa perché ha puntato una calibro 38 contro il suo vecchio allievo. Sa solo che la sera prima aveva sognato la sua Hettie, scomparsa due anni prima, durante la grande tormenta di neve del 1967…
Il diacono King Kong è uno di quei romanzi che aiutano a comprendere meglio il mondo. È ambientato nel 1969, anno in cui Neil Armstrong posa il piede sulla Luna, i New York Mets vincono le World Series, e tutto sembra possibile. A meno che non si sia neri, dice McBride. In una Brooklyn decisamente meno hipster e inflazionata rispetto a quella odierna, si trovano le Causeway, case popolari al cui centro c’è la chiesa di Five Ends, vero fulcro di azione del romanzo. La chiesa e le case sono dimora di diversi personaggi dai soprannomi francamente improbabili, tra cui Cuffy Lambkin, per tutti Sportcoat o, dispregiativamente, diacono King Kong, a causa del nome dell’alcol con cui quotidianamente si obnubila i sensi. Sportcoat è una sorta di pallina matta che McBride utilizza per mettere in moto gli eventi e per farli aderire tra di loro, il primo tassello che dà il là all’effetto domino. Una bella mattina di settembre, Sportcoat si alza, litiga più del solito con Hettie (morta due anni prima), scende in piazza e spara a Deems. Da questo momento, si susseguono una serie di eventi probabili e improbabili, che portano in superficie tensioni sopite da tempo, volte a cambiare per sempre la vita degli abitanti della Causeway. Una vita dura, segnata dalla povertà, dal razzismo, dall’esclusione. Una vita di ordinaria follia dove “tutti hanno un motivo per essere matti” e “c’è gente che deve restare matta per non diventare matta”. Queste sono le persone dipinte (in maniera eccezionale) da McBride. Povere, arrabattate, tangenziali al grande sogno americano, funzionali ma mai veramente parte di esso. Con la sua scrittura, il cui tono si caratterizza a seconda del momento, McBride anima un romanzo che più si sviluppa, più diventa interessante. Il diacono King Kong ha fatto vincere a McBride, per la seconda volta, l’Anisfield-Wolf Book Award, premio letterario dato alle opere che aiutano a comprendere il razzismo e analizzano la complessità della vita umana. Lo aveva vinto per la prima volta nel 1995, con il romanzo autobiografico Il colore dell’acqua. Invece con The Good Lord Bird (2013) si è aggiudicato un National Book Award. Tornando invece a Il diacono King Kong, una menzione d’onore va fatta al capitolo sette, La marcia delle formiche, probabilmente uno dei più spiazzanti e divertenti che una persona possa leggere nel corso della sua vita.