
Zaccaria Argenti ha quarantadue anni, un fisico imponente, modi da guascone, dolori al corpo che lo affliggono ed ha perso la memoria. O meglio, ne ha perso dei pezzi, conservando una memoria selettiva che gli consente di ricordare solo alcune cose unitamente al fatto che lui per amici e colleghi è Zac, commissario capo in forza alla questura di Torino. Ma cosa è successo? È stato in coma, porta sul corpo i segni di un evento che ora lo costringe alla convalescenza ed alla riabilitazione nella quale è coadiuvato dall’ispettrice Maya Bolla per essere riammesso, si spera, al servizio operativo. Per quanto momentaneamente a riposo, non riesce a non farsi coinvolgere da una serie di omicidi difficilmente spiegabili che popolano le cronache e che lo spingono a riprendere contatti, nonostante il divieto del questore, con i colleghi coinvolti nelle indagini. Una ragazza uccisa dopo una violenza di gruppo, i componenti del branco a loro volta massacrati, degli incidenti sospetti, un’anziana scomparsa…Tra intuizioni, flash e fasi oniriche Zac riesce sempre ad avere elementi che sembrano portarlo al fil rouge che collega i crimini. E se quei flash, quelle intuizioni fossero pezzi della sua memoria che affiora? Lo sforzo sarà immane: indagare contemporaneamente sui crimini e sui pezzi sconosciuti del proprio passato...
Il sottotitolo di copertina promette “Un’indagine del commissario Argenti” creando l’aspettativa di un bel noir di provincia. Ci si trova invece in un hard-boiled americanissimo in struttura, lunghezza, situazioni e linguaggio: “…scese una sventola in minigonna inguinale e gli appioppò un bacio rovente sfoderando un sorriso hollywoodiano… poi si voltò per sculettare verso il bagno”. La Jessica Rabbitt di cui sopra è una ragazza moldava che il nostro “eroe” ha vinto a poker (!!!) e della quale parla, come se ci fosse da vantarsene, in tal guisa: “Sapevo che quello stronzo non aveva niente in mano, è bastata una doppia all’asso. Poi non aveva da pagare, mi sono preso mille in contanti più Bea: Beato chi se la piglia”. Questo passaggio nauseante condensa esattamente i principali difetti disseminati nelle 424, troppe, pagine del romanzo: tante scene inutili, anzi deleterie, ai fini della narrazione (questa sopra riportata avrebbe voluto rafforzare l’immagine sregolata del protagonista mentre riesce solo a renderlo penosamente squallido), scene di sesso gratuite nella loro banalità ai limiti dell’immaturo (a proposito, “travestiti” e “transessuali” sono due generi diversi…) e dialoghi che vorrebbero ricalcare l’ironia laconica del Sam Spade di Hammett. Una panoplia di “Baby”, “Calma piccola…”, “Fottiti”, “’fanculo” e similitudini forzate a profusione, una su tutte BP (che starebbe per “Bella poliziotta”!) descritta come “…uno chantilly di panna freschissima, due occhi come marron glacé” (ma per favore) in stile “Il tipo era secco come un Martini Dry”… A farne pesantemente le spese è un intreccio che sarebbe più che buono nella sua complessità ed i cui fili tornano al proprio posto senza lasciare trame scoperte. Una bella canzone arrangiata male ed eseguita peggio. Una storia che meritava di essere raccontata diversamente ricordando che Torino non è San Diego e Stupinigi non è Tijuana.