
Per una sintesi rapida e d’effetto del femminismo e del dibattito culturale che si è costruito intorno potrebbero bastare due affermazioni. Nella prima risiedono le rivendicazioni, le lotte e le lezioni del movimento delle donne che finora si sarebbero limitate a dimostrare “il danno arrecato a metà dell’umanità (in realtà al 52% dei genere umano) e a sostenere la necessità di riparare a questo male”. La seconda affermazione, quasi una risposta, ribadisce con tanto di alzata di spalle che una lotta così impostata non funziona e non è giusta perché frammentaria: “Ci sono le donne, bene; c’è anche il proletariato. E il Terzo Mondo. E i matti. E gli omosessuali e così via”. Rimproveri, retorica, e soprattutto incomprensioni e pregiudizi. Una via d’uscita al dilemma, che però fatica a emergere, ribatte che - invece - il femminismo comprende il male sofferto da tutti coloro che sono o sono stati schiavi, comprende la crisi di tutta l’umanità ed è l’unica forza di interpretare il cambiamento. Ulteriore retorica? Pensiamo allora all’antropocene. Il termine definisce l’attuale era geologica nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente, con l’influenza nefasta, forse irreversibile, del primo sul secondo. Antropocene è un neologismo nato nel 1873 ma solo dopo il 2000 è entrato a far parte del linguaggio corrente, in relazione al cambiamento climatico soprattutto. Ebbene, nel 1973, in Francia era nato un movimento, il Front féministe, che cominciava a riflettere sulle questioni ecologiche. I ragionamenti che le aderenti avevano portato avanti erano ben complessi, ma una conclusione, che oggi suona come una profezia, si può trarre. “Se non si vuole accettare la morte planetaria, bisogna accettare la rivincita delle donne, e questo perché i loro interessi personali, in quanto sesso, coincidono con quelli della comunità umana, mentre quelli dei maschi, a titolo individuale, vi si discostano”. E se invece di antropocentrismo cominciassimo a parlare di androcentrismo?
Il saggio di Françoise d’Eaubonne, teorica e attivista del femminismo, scrittrice prolifica, è considerato il primo manifesto dell’ecofemminismo (termine che la stessa autrice aveva coniato). Risale al 1974 ma non ha avuto la stessa fortuna di opere di sintesi del pensiero e del movimento delle donne che, soprattutto in questo ultimo decennio, si stanno rileggendo, reinterpretando. Le sue tesi sono quanto mai attuali e meritano una riflessione a distanza di quasi mezzo secolo. Il merito della ri-proposta va dunque a una piccola casa editrice lombarda e alla traduttrice e curatrice del saggio, Sara Marchesi. Perché, dunque, rileggere oggi la d’Eaubonne? Certamente non è un testo che potrebbe far presa immediata su un movimento. Se oggi l’attivismo si riduce a slogan composti in una grafica carina e accattivante su misura dei social network, il ragionamento e le pratiche a esso legate faticano a uscire dagli ambiti accademici. La forza profetica e la prospettiva condivisibile del manifesto dell’ecofemminismo però potrebbe rivelare un’energia capace di smuovere qualcosa. Un buon punto di partenza è proprio la denuncia verso il patriarcato inteso non solo come oppressore delle donne ma sfruttatore del pianeta. E fa derivare da questa intenzione di lotta comune, movimento delle donne ed ecologismo, un aut aut radicale e forte: il femminismo è l’alternativa alla morte. Non solo: esso ha già in sé tutti gli strumenti e le risorse per la mobilitazione a favore del cambiamento.