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Il figlio

Il figlio

1936. Intervistato dalla Works Progress Administration, Eli McCullough racconta di essere stato “il primo bambino maschio nato nella repubblica del Texas”, nel marzo 1836, esattamente cento anni prima. I suoi genitori erano arrivati in Texas grazie alla disperata politica di incentivi alla colonizzazione del governo messicano: “qualunque uomo, di qualunque nazione, disposto a trasferirsi a ovest del fiume Sabine” riceveva quattromila acri di terra libera. Una terra verde e ricca allora, molto diversa dal Texas che conosciamo oggi, ma minacciata dalle continue incursioni dei Comanche. La loro filosofia verso i forestieri era di una “precisione quasi dogmatica: torturare e uccidere gli uomini, stuprare e uccidere le donne, prendere i bambini come schiavi o adottarli”… 2012. Jeanne Anne McCullough, pronipote di Eli, è vissuta nella gigantesca casa di famiglia per ottantasei anni, ma ora è frustrata perché il ranch si popola solo nei weekend: a quanto pare non è riuscita a instillare nei suoi nipoti l’amore per le terre di famiglia e la grinta necessaria a condurre “a suo modo” l’azienda petrolifera fondata dal bisnonno e che li ha resi tutti ricchissimi…

Quanto e forse più della citazione di Edward Gibbon che apre il romanzo e alla quale il 90% dei critici ha attribuito il ruolo di manifesto programmatico, mi pare che la chiave di lettura de Il figlio sia nel titolo apparentemente inoffensivo, se non bizzarro. L’architrave della monumentale saga familiare (quasi 600 pagine) raccontata da Philipp Meyer non sarebbero quindi le peripezie giovanili di Eli McCullough (malgrado il suo rapimento da parte dei Comanche sia di gran lunga la parte più avvincente del libro, e questo non stupisce perché i romanzi d’avventura sono i più belli del mondo, da sempre) o le smanie antropologicamente liberiste della sua ricchissima pronipote Jeannie, bensì i dubbi, le crisi di coscienza e le debolezze di Peter. Il figlio – appunto – del vulcanico e centenario patriarca della famiglia McCullough. L’unico che ha l’allure del democrat, l’unico (forse) a salvarsi sotto lo sguardo cinico e nichilista dell’autore, che non fa sconti a nessuna cultura, né quella dei “selvaggi” nativi né quella dei capitalisti “selvaggi” che li hanno soppiantati in questa sorta di Storia (o Epica, o entrambe le cose) degli Usa che il baltimoriano Meyer pare voler raccontare con i suoi acclamati romanzi. Il linguaggio è brusco ma immaginifico, un incrocio tra Robert E. Howard (che di Texas se ne intendeva tanto quanto di Cimmeria) e Richard Ford. Una bistecca da oltre un chilo sbattuta sulla griglia.