
Ha appena compiuto diciassette anni. Ha un corpo giovane e vitale, i suoi muscoli si stanno delineando. Eppure si sente “grasso e goffo”, “miserabile e patetico”. La sua anima è avvelenata da un rancore cieco e da un disprezzo feroce verso sé stesso, che tracima, e proietta all’esterno. In primo luogo sulla famiglia: sul padre, preside in una scuola superiore privata, dall’atteggiamento liberale che lui avverte come condiscendente e disinteressato. Sul fratello, che lavora in una stazione televisiva, e che sembra essere entrato all’improvviso, e senza alcuna ragione apparente, in una cupa crisi depressiva. Sulla madre, casalinga indifferente. E soprattutto su sua sorella, infermiera in un ospedale dell’esercito di difesa nazionale, l’unica ad essersi ricordata del suo compleanno, certo, ma in grado di smontarne le argomentazioni e umiliarlo in poche frasi nel corso di una discussione sulla politica: lei, su posizioni vicine al partito conservatore, lui simpatizzante per il partito liberaldemocratico. Non ha amici. Coltiva pensieri violenti, distruttivi. Unico rifugio è la masturbazione, praticata ossessivamente, fulcro esistenziale, barriera contro un’angoscia che cela il terrore profondo di una vita che sente insensata: un brevissimo lampo di esistenza in un orribile nulla. Tutti sono consapevoli delle sue debolezze, del suo onanismo, ne è certo. La svolta arriva grazie a Shintoho, un compagno di scuola piuttosto popolare - che gli suscita un misto di ammirazione ed invidia per il suo saperci fare con le ragazze, con cui alterna avances ad apprezzamenti volgari -, che gli propone di entrare nella claque della destra. Si tratta di andare, in divisa da studente, ai comizi del “kodoha”, un movimento politico imperialista e militarista. C’è anche da guadagnarci: cinquecento yen al giorno possono far comodo…
“(…) La mia anima piena di paure individuali l’ho buttata via, l’ho gettata in un altoforno enorme e dopo, privo ormai di ogni preoccupazione, sono stato visitato dall’estasi degli eletti, dall’orgasmo costante […] Nell’attimo in cui ho accoltellato il segretario sono saltato dentro la quarta dimensione della felicità suprema. Forse anche in questo momento sono cadavere, un corpo che è rimasto inalterato per duecento anni. La cella del carcere preventivo mi era sembrata il “regno dei morti”. Qui al riformatorio di Nerima forse è il purgatorio. Un tascabile di mia sorella riportava questa frase: «Di qui si va per la città dolente». Era sottolineata in rosso, mi pare fossero le parole incise sul cancello del mondo dei morti. Ho sferrato il colpo omicida, era la mia richiesta del lasciapassare per superare il cancello, rito di passaggio, la danza della sciabola, adesso sono nella città della gioia”. Tokyo, 12 ottobre 1960: il sindacalista e leader del partito socialista giapponese Inejirō Asanuma sta partecipando ad un dibattito sulle future elezioni politiche e sul rinnovo del patto post-bellico con gli Stati Uniti. Asanuma, pur non essendosi opposto alla firma del trattato, si è distinto per aver assunto posizioni contrarie all’egemonia americana e filo-maoiste. È stato subito contestato da giovani esponenti dei movimenti di estrema destra, lì presenti. Ad un tratto un ragazzo sale sul palco, gli corre incontro: è armato di un wakizashi, una spada tradizionale, simile ad una katana, di dimensioni più piccole. Davanti alle telecamere, gli piomba addosso e lo trafigge, per due volte. Asanuma muore durante la corsa in ospedale. Il giovane attentatore si chiama Otoya Yamaguchi. Ha diciassette anni. Arrestato, Otoya si suicida in carcere poche settimane dopo, impiccandosi con un lenzuolo. Lascia scritto sul muro della cella, con il dentifricio, “Avrei voluto dare sette vite per il mio Paese. Lunga vita a Sua Maestà, l’Imperatore”, citando le ultime parole attribuite a Kusunoki Masashige, samurai del XIV secolo. Lo scatto che ritrae il ragazzo con l’arma in mano, appena estratta dal ventre di Asanuma, fa il giro del mondo, e vale il premio Pulitzer al fotoreporter Yasushi Nagao. Seventeen e Morte di un giovane militante, le due parti che compongono Il figlio dell’Imperatore, vengono pubblicate a pochi mesi di distanza da quei fatti, nel 1961, rispettivamente sui numeri 1 e 2 della rivista “Bungakukai”. Le polemiche per la morte di Asanuma non si sono placate; i due scritti colpiscono nel vivo: i movimenti di estrema destra scatenano una feroce campagna contro l’autore, Kenzaburō Ōe, all’epoca giovane scrittore emergente, e contro l’editore del giornale. Le minacce di morte e le telefonate minatorie sortiscono l’effetto voluto: l’editore pubblica una lettera di scuse, e blocca la distribuzione di Morte di un giovane militante. Le due novelle andranno a comporre il romanzo in forma completa per la prima volta solo nel 1997, nell’edizione italiana curata da Marsilio. Il protagonista è un diciassettenne solitario, dalla psiche instabile, che sembra ritrovare la propria identità e uno scopo esistenziale solo nel culto cieco, fideistico, parossistico, delirante della figura dell’Imperatore, richiamo ad una tradizione tanto radicata quanto svuotata di senso dalla resa militare agli americani, dopo le vampate nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Nei movimenti di estrema destra il ragazzo trova l’humus necessario per coltivare, esprimere, praticare una violenza selvaggia che nasce dalla proiezione all’esterno di un abissale disprezzo di sé. Ōe descrive in modo obliquo, ma assolutamente lucido, il clima di una nazione uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale, dall’identità culturale scardinata, partendo da posizioni antitetiche rispetto a quelle del celebre conterraneo Yukio Mishima - che anni dopo avrebbe fondato una organizzazione paramilitare anticomunista e, dopo aver occupato il quartier generale delle forze di autodifesa giapponese, si sarebbe dato la morte secondo la tradizione samurai commettendo seppuku. Lo scrittore usa un sarcasmo feroce per raffigurare la gonfia e vuota retorica usata da attori politici meno che mediocri per tentare di cavalcare tensioni figlie di una devastante perdita di riferimenti, di un orgoglio nazionalista pesantemente menomato, ma comunque in grado di far presa sulle fragilità e sulla disperata ricerca di significato di menti disorientate, se non del tutto disturbate. In appendice, ad arricchire l’edizione (divenuta introvabile, e di cui si auspica la ristampa), Io e il mio ambiguo Giappone, il discorso pronunciato dall’autore davanti all’Accademia svedese nel 1994, in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura: una chiave di lettura unica, a tratti toccante, per approfondirne la poetica, le influenze, le radici, l’etica, l’arte.