
Quando l’autunno avanza e le fredde brume inglesi si fanno troppo inospitali, per gli Emerson-Peabody, la famiglia di archeologi-investigatori più famosa del globo terracqueo, non c’è che una cosa da fare: migrare. Destinazione, ovviamente, l’Egitto, con tutti i suoi annessi e connessi. Perché ormai Amelia & Co. lo sanno più che bene: a ogni nuova campagna di scavi una nuova gatta da pelare, un farabutto o più da neutralizzare, un mistero da svelare, un crimine da vendicare. Stavolta le premesse sono pessime ben prima della partenza verso Sud, visto che qualcuno sta contrabbandando reperti archeologici falsi, e ha pensato bene di scaricare i sospetti su David, il giovane egiziano appena entrato in famiglia dopo il matrimonio con Lia, la nipote di Amelia, uno dei pochi ad avere tutte le capacità per produrre oggetti tanto accuratamente falsificati (nonché il colore della pelle troppo scuro per non essere guardato con diffidenza). Tra le sabbie dell’Egitto, la situazione, chiaramente, non può che complicarsi, sarà che le piramidi sembrano fatte apposta per nascondere cadaveri, e non solo quelli mummificati… Chi ha potuto uccidere Maude, la giovane americana colpevole solo d’essersi innamorata senza speranza di Ramses, l’ormai cresciuto pargolo di Emerson e Amelia? Chi è la mente criminale responsabile di quest’ennesimo complotto ai danni della pacifica – a meno di non stuzzicarla – famiglia di egittologi?
Ne è passato di tempo da quando Amelia Pebody fu centrata in pieno da una freccia di quel discolo di Cupido, cadendo innamorata all’istante di Radcliffe Emerson, l’irascibile e irresistibile archeologo che poi sarebbe diventato suo marito e il padre del suo dottissimo figlio Ramses. Ne è passato di tempo, la giovinezza è svanita (sono sessanta, ormai, le candeline sulla torta di compleanno), ma non può dirsi altrettanto del suo spirito avventuroso, del coraggio e del pallino per le investigazioni, messo a frutto ancora una volta con profitto – e qualche palpitazione. Certo, non è scontato che una (super)eroina di massa invecchi, che il tempo scorra per lei come per i comuni mortali, visto che spesso i suoi “colleghi” si ritrovano ad agire come dentro una bolla in cui il ticchettio degli orologi è rallentato al massimo e in cui le insidie della vecchiaia sono bandite. Insidie che non comportano solo aggiustamenti dal punto di vista del plot – una sessantenne non può fare acrobazie alla Lara Croft, ovvio –, ma anche stilistiche e strutturali. È questo un aspetto che gli ultimi romanzi della Peters mettono molto bene in rilievo, visto che la fantomatica curatrice della pubblicazione dei diari di Mrs Emerson ha aggiunto a questi altri “documenti” di famiglia: un escamotage che l’autrice ha concepito per dare maggior rilievo a personaggi che nei precedenti capitoli della serie emergevano solo attraverso il punto di vista parziale dell’archeologa (per forza di cose non quello di un narratore onnisciente), e che ora si rivelano nuovi protagonisti – in particolare il figlio Ramses e la figlioccia Nefret, ormai cresciuti e pronti a vivere a loro volta pericolose avventure, anche nel campo dei sentimenti. Ma questo montaggio di materiali non funziona che parzialmente, e basta essere un poco smaliziati per leggerlo come un trucchetto un po’ maldestro, concepito per uscire da un’impasse narrativa altrimenti paralizzante, a meno di non voler chiudere la serie e iniziarne una nuova, magari uno spin-off, magari con Amelia come comparsa di lusso. Inoltre, raccontando la stessa vicenda attraverso vari punti di vista, Il flagello di Horus assume una dimensione assolutamente abnorme: più di quattrocentocinquanta pagine sono troppe, tanto più che la Peters ha una connaturata tendenza alla prolissità, e invece una maggiore snellezza darebbe sicuramente più risalto all’intrigo giallo, a dir la verità alquanto annacquato e poco appassionante (ma, in generale, le indagini di Amelia hanno sempre avuto un carattere di divertissement, con l’ironia a prevalere sulla suspense). All’undicesimo libro della serie (in America siamo quasi al doppio) nulla di nuovo sotto il sole, dunque, ma solo la fastidiosa sensazione di un’autrice tutto sommato a corto di idee, impelagata in un ciclo romanzesco stanco, se non agonizzante. Riuscirà la scrittrice-egittologa a tamponare le magagne e a rinnovare i fasti dei primi libri? La risposta, ovviamente, alla prossima “puntata”…
Ne è passato di tempo da quando Amelia Pebody fu centrata in pieno da una freccia di quel discolo di Cupido, cadendo innamorata all’istante di Radcliffe Emerson, l’irascibile e irresistibile archeologo che poi sarebbe diventato suo marito e il padre del suo dottissimo figlio Ramses. Ne è passato di tempo, la giovinezza è svanita (sono sessanta, ormai, le candeline sulla torta di compleanno), ma non può dirsi altrettanto del suo spirito avventuroso, del coraggio e del pallino per le investigazioni, messo a frutto ancora una volta con profitto – e qualche palpitazione. Certo, non è scontato che una (super)eroina di massa invecchi, che il tempo scorra per lei come per i comuni mortali, visto che spesso i suoi “colleghi” si ritrovano ad agire come dentro una bolla in cui il ticchettio degli orologi è rallentato al massimo e in cui le insidie della vecchiaia sono bandite. Insidie che non comportano solo aggiustamenti dal punto di vista del plot – una sessantenne non può fare acrobazie alla Lara Croft, ovvio –, ma anche stilistiche e strutturali. È questo un aspetto che gli ultimi romanzi della Peters mettono molto bene in rilievo, visto che la fantomatica curatrice della pubblicazione dei diari di Mrs Emerson ha aggiunto a questi altri “documenti” di famiglia: un escamotage che l’autrice ha concepito per dare maggior rilievo a personaggi che nei precedenti capitoli della serie emergevano solo attraverso il punto di vista parziale dell’archeologa (per forza di cose non quello di un narratore onnisciente), e che ora si rivelano nuovi protagonisti – in particolare il figlio Ramses e la figlioccia Nefret, ormai cresciuti e pronti a vivere a loro volta pericolose avventure, anche nel campo dei sentimenti. Ma questo montaggio di materiali non funziona che parzialmente, e basta essere un poco smaliziati per leggerlo come un trucchetto un po’ maldestro, concepito per uscire da un’impasse narrativa altrimenti paralizzante, a meno di non voler chiudere la serie e iniziarne una nuova, magari uno spin-off, magari con Amelia come comparsa di lusso. Inoltre, raccontando la stessa vicenda attraverso vari punti di vista, Il flagello di Horus assume una dimensione assolutamente abnorme: più di quattrocentocinquanta pagine sono troppe, tanto più che la Peters ha una connaturata tendenza alla prolissità, e invece una maggiore snellezza darebbe sicuramente più risalto all’intrigo giallo, a dir la verità alquanto annacquato e poco appassionante (ma, in generale, le indagini di Amelia hanno sempre avuto un carattere di divertissement, con l’ironia a prevalere sulla suspense). All’undicesimo libro della serie (in America siamo quasi al doppio) nulla di nuovo sotto il sole, dunque, ma solo la fastidiosa sensazione di un’autrice tutto sommato a corto di idee, impelagata in un ciclo romanzesco stanco, se non agonizzante. Riuscirà la scrittrice-egittologa a tamponare le magagne e a rinnovare i fasti dei primi libri? La risposta, ovviamente, alla prossima “puntata”…