
Piove a Buenos Aires, l’Avenida de Mayo è quasi deserta. È il 13 settembre del 1940 e gli echi della guerra in Europa sono lontani, tanto da credere di essere in tempo di pace. Vicente Rosenberg cammina tranquillo sotto la pioggia, protetto solo dal cappello e si dirige distrattamente verso il Caffè Tortoni. È un locale alla moda, frequentato da Luis Borges e da tanti rifugiati europei, come Ortega y Gasset e Arthur Rubinstein. Entra e subito vede al tavolino Ariel, il suo migliore amico, leggere il giornale, mentre Sammy controlla chi gioca al biliardo. Scrollate le gocce di pioggia dal soprabito si siede con loro e guarda i titoli del quotidiano. Si parla di Europa, della guerra e dei nazisti che iniziano a rinchiudere gli ebrei nei ghetti. Da giorni è stranamente silenzioso, anche Ariel se n’è accorto e lo guarda preoccupato. Si conoscono dall’età di diciotto anni, appena arruolati, solo lui lo chiama ancora Wincenty. Sammy lo avevano conosciuto durante il viaggio in nave da Bordeaux a Buenos Aires, nel 1928. Tutti e tre hanno lasciato la Polonia per seguire un sogno, abbandonando le radici ed il loro essere ebrei. Dal giornale apprendono che a Varsavia la situazione si sta facendo difficile, anche procurarsi i francobolli è un’impresa e tenere i contatti con i parenti è solo una speranza. Vicente partecipa a fatica alla conversazione, che sempre scivola sulla politica e su come finiranno gli ebrei d’Europa. Sammy è fuggito dal Vecchio Continente insieme a tutta la sua famiglia e tre anni prima Ariel ha convinto i genitori e la sorella a raggiungerlo in Argentina. Lui no, è partito da solo, sua madre Gustawa e suo fratello sono ancora in Polonia. Aveva promesso loro che avrebbe scritto, una volta a settimana, sua madre lo fa più volte al mese, ma lui col passar del tempo ha smesso. Il lavoro al negozio di mobili, sua moglie Rosita, le figlie Martha ed Ercilia lo assorbono, come pure il gioco dei cavalli e il poker. Mentre sua madre supplica parole, sognando di rivederlo, lui la ignora. Di questi rimproveri ha riso con Ariel fino al 1934, poi li ha accolti con indifferenza nel 1937, ma da tre anni è lui a preoccuparsi di non avere abbastanza notizie da lei...
Vicente Rosenberg pensa alla madre rimasta in Polonia. Le lettere che arrivano raccontano di un muro costruito dai tedeschi attorno al ghetto di Varsavia. L’impossibilità di capire e condividere l’esperienza dei suoi familiari, i sensi di colpa per non averli vicino a poco a poco lo portano al silenzio assoluto. Santiago Amigorena, nipote di Vicente, ricostruisce un dialogo a distanza tra storia, rimozione, invenzioni letterarie e memorie familiari. Questo romanzo occupa un posto particolare nella sua produzione letteraria. È il decimo, fa parte di un progetto autobiografico globale iniziato nel 1992 e questo libro può esserne considerato l’introduzione o la conclusione. Il ghetto interiore nasce dalla lettura della corrispondenza tra Vicente e sua madre Gustawa, rinchiusa nel ghetto di Varsavia e morta a Treblinka II. Amigorena ha conosciuto poco suo nonno, è morto quando aveva sette anni, ma quel silenzio è diventato parte del suo e di questo molto ha narrato, considerando anche la scrittura una forma di silenzio. Va chiarito che questo non è un libro sulla Shoah, ma su Vicente Rosenberg, che vive a dodicimila chilometri da quei luoghi, in una Buenos Aires ricca e spensierata. Tema importante del libro è la questione dell’identità. Durante gli anni del liceo a Varsavia, Vicente studia con passione la lingua e la poesia tedesca: Goethe, Schiller, Hölderlin, Novalis e Heine e vuole andare a Berlino per continuare gli studi. Dimentica così la sua lingua madre, lo yiddish e l’essere ebreo. È più polacco che ebreo, più argentino che polacco, poi con i nazisti al potere, si è sentito di nuovo intimamente ebreo. Vuole essere di nuovo figlio anche se non può più farlo. “Era diventato un fuggiasco, un traditore. Un vigliacco. Era diventato colui che non si trovava dove avrebbe dovuto trovarsi, colui che era fuggito, colui che viveva mentre i suoi cari morivano. E a partire da quel momento ha preferito vivere come un fantasma, silenzioso e solitario”. Gustawa chiede parole e non soldi, racconta la disperazione del ghetto e la rivolta, per contrastare il silenzio indifferente dei concittadini e dell’Europa. I giornali argentini scrivono poco di quelle atrocità e nemmeno la gente ne parla, Buenos Aires non vuole vedere. Lo stesso sarebbe accaduto quarant’anni dopo. La città si sarebbe rifiutata di credere che la dittatura civile-militare avesse ucciso migliaia di desaparecidos. L’oblio è diverso dalla negazione, secondo Amigorena, bisogna aver vissuto e conosciuto per poter dimenticare. Per Borges l’oblio è il solo perdono e la sola vendetta. Santiago ha fatto il percorso inverso a quello del nonno. Nel 1973 all’età di dodici anni con i genitori lascia l’Argentina, prima che i militari prendano il potere, per non dover decidere all’ultimo minuto se entrare in clandestinità e combattere o partire. Un sentimento che accomuna l’autore a suo nonno è quello di non essere dove si sarebbe dovuto e voluto essere, per vivere un momento importante, Varsavia per l’uno e la lotta degli studenti argentini per l’altro. Santiago Horatio Amigorena è regista, sceneggiatore, produttore, ma con Il ghetto interiore ha raggiunto un successo importante. Ha vinto il Premio Goncourt La Scelta 2020 in Italia, Belgio e Romania. È il premio votato dagli studenti liceali, che con il loro entusiasmo diretto e libero, pur vivendo in un mondo pieno di stimoli e rumori, hanno scelto questo romanzo che narra il silenzio.